Le ragazzine

C’era Giulia e c’ero io sotto il sole di agosto, al funerale di Lui, suo padre.

Che era anche il mio, ma solo perché mia madre aveva deciso di sposarlo.

Giulia ha deciso di indossare una camicia viola senza maniche, mia madre non si è opposta.

Abbiamo passato la nostra infanzia, io e Giulia, a distanza di sicurezza. Lei, la sua fossetta sul mento, le magliette che aderivano al corpo come una pellicola, io che invece ne indossavo di larghe e scure per nascondere il mio seno.

Quando sono arrivata a casa loro, avevo dieci anni, Giulia tredici. Mi ha guardato e poi ha scordato che occupassi il suo stesso spazio, che ci fosse una casa a legarci, suo padre, mia madre, un cane. La stessa camera.

Quando è morto, non ha pianto. Dopo averlo rivestito, è andata in stanza. Si è seduta sul letto, ha guardato l’armadio. Io l’ho seguita perché mia madre mi ha chiesto di farlo.

Mi ha detto Non sono triste.

Io le ho risposto che forse era meglio non dirlo. Lei ha continuato chiedendomi se dovesse andare via o se dovessimo andare via noi. 

Io le ho risposto una cosa del tipo che dopo tutto eravamo una famiglia e che da lì non sarebbe andato via nessuno.

Poi si è stesa sul letto a guardare il soffitto e mi ha chiesto di lasciarla sola.

Era la prima volta che Giulia aveva parlato con me. 

Durante il funerale ha lasciato che le tenessi la mano. Mi ha detto che si sarebbe sforzata di essermi amica ma solo perché non aveva nessuno. 

Fuori dalla chiesa, c’era il sole. Invadente e caldo. E c’era mia madre che parlava con un uomo. Poi ho capito fosse un amico di Lui, che era lì per stare vicino alla famiglia e alle ragazzine.

Aveva detto proprio così: ragazzine. Pare fosse stato Lui a usare quella parola. Ogni volta che aveva da dire della famiglia, di raccontare quanto fosse felice, diceva: le mie ragazzine. Io, Giulia, mia madre.

Le nostre orbite si incrociavano poco. Giulia era molto distante da me, e meno da mia madre. Lo aveva imposto Lui quel giorno di tre anni fa, quando Giulia ha gridato contro la mamma. Lui l’ha strattonata e l’ha portata di là, in stanza. Abbiamo sentito dei rumori sordi, un gemito, e poi silenzio. Con me era ruvido, non mi ha mai picchiato, ma mi diceva solo che dovevo cambiare perché con quei vestiti larghi, con quelle posture, non mi avrebbe “chiavata” nessuno. Gli piaceva usare il verbo, ridendo. Mentre mia madre sorrideva, come se fosse una battuta arguta. 

Con la mamma si sfogava di notte. Quando ecco, sì, la “chiavava” con forza. E noi la sentivamo dire basta.

L’amico di Lui si è avvicinato a me e mi ha stretto la mano. Mi ha detto un mi dispiace neutro e mi ha lasciato un bacio sulla fronte. Ho sentito l’umido e l’odore di sudore e sigaro. Poi ha abbracciato forte Giulia, le ha accarezzato la guancia ed è sceso sulla camicia viola. Il tessuto scivolava fra l’indice e il pollice, le ha detto che Lui la amava e che Giulia non avrebbe dovuto usare quel colore.

Lui aveva fatto scivolare fra l’indice e il medio il tessuto del vestito con le ciliegie che Giulia aveva indossato per i suoi sedici anni. Ricordo che eravamo a tavola. Mia madre era in piedi vicino al lavello e ci dava le spalle. Lui stava fumando una delle sue sigarette al mentolo e teneva una mano sulla schiena nuda di Giulia. Le stava dicendo che il vestito era bello ma che era troppo scoperta. Ricordo che Giulia mi aveva detto che hai da guardare? e si era alzata di scatto facendo cadere un bicchiere a terra. Lui le ha dato un colpo sul sedere e le ha detto di togliere quel vestito e di aspettarlo in camera.

Ha spento la sigaretta nel piatto, accanto alla carne che non aveva finito e ha detto a mia madre di portare il cane fuori. 

Ho visto mia madre asciugare le mani e dirmi di accompagnarla. E siamo uscite. Era buio e avevo tredici anni.

Quando è morto era solo in stanza. La mamma l’ha trovato che teneva la mano sul petto e stringeva le labbra. Era nudo. Lo hanno rivestito lei e Giulia. 

Noi altre ragazzine dovevamo far finta di non vedere.

Elena Giorgiana Mirabelli

Elena Giorgiana nasce nella primavera del 1979 a Cosenza. Adora le scatole e l’odore della vaniglia. Ha studiato Filosofia in Calabria e in Sicilia e Tecniche della narrazione a Torino. Ha un rapporto ludico con la scrittura e sogna sempre cose strane.

Illustrazione di Nora

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