Mille soli

Tutte le cose della vita hanno una componente divina.

Ma alcune sono più divine di altre,

e i girasoli si collocano al vertice di questa gerarchia.

La famiglia Helianthus, stanca di essere pestata e maltrattata, aveva lasciato la campagna ed era emigrata nella Serra del nord, in un sobborgo di tulipani bianchi. Neppure il tempo di abituarsi che i tulipa, in una retata in pieno giorno, aggredirono il capofamiglia. Poi, per paura dei guardiani, se la diedero a gambi levati. Lo picchiarono così tanto da squarciargli le radici. 

Il signor Helianthus fu portato così in una lussuosa clinica verde. Era tutto verde. Anche il soffitto. Quando riuscì ad alzarsi dal letto, dalla finestra vide uno stupendo giardino. C’erano l’altalena, lo scivolo, i giochi a molla e i castelli di legno coi torrioni che portavano impresso lo stemma della sua famiglia.

La dottoressa dal camice verde – scoprì poi che si chiamava Ortensia – lo aveva assistito per tutti e tre i mesi del suo stato vegetativo. E lui se n’era innamorato.

Lei sosteneva che quello non era amore, si chiamava transfert. Poiché nessuno della sua famiglia lo aveva cercato, lui le aveva rovesciato addosso, come un secchio d’acqua nel periodo della gemmazione, tutti i suoi sentimenti.

Tuttavia fece di tutto per smentirla, per convincerla che non era riconoscenza, né nostalgia della sua vecchia vita, ma che aveva finalmente trovato il suo sole. Iniziò ad alzarsi un’ora prima per le terapie, e le terminava un’ora dopo; aveva anche interrotto lo sciopero dell’azoto, e non disdegnò più di farsi detergere il fusto senza strapparsi i petali di dosso.

E così, dopo un’insistente corte, il signor Gogh Helianthus la spuntò.

I due si sposarono in una chiesa iridata e istoriata, di fronte a un prete blu, il simpaticissimo e vecchio don Agapanto, che declamò un bel sermone. Ma si limitò a quello. Si astenne dal dire che Dio li amava, che li aveva creati a sua immagine e somiglianza e che dopo questa vita li aspettava a braccia aperte. Quello che avrebbe voluto dire era protetto dal sigillo sacramentale – due ore prima, una giovane gazania glielo aveva spifferato in confessione ‒, e non poteva fare altro che portarselo sotto terra. Quindi tenne per sé la notizia che la famiglia dello sposo era stata sradicata, messa in un vaso, e tre giorni dopo gettata in un cassonetto: Amig, il figlio più piccolo del signor Helianthus, era stato trovato spiaccicato sul ciglio di una strada.  

Ma evidentemente lo stramonium non aveva concluso il suo lavoro su quella nuova coppia: la famiglia di Ortensia, nel tratto dalla chiesa al ristorante, era stata aggredita da un gruppuscolo di garofani rossi.

Per un po’ di tempo Ortensia e Gogh vissero serenamente. Poi, il primo sabato di maggio, mentre Ortensia era di guardia in ambulatorio, fu aggredita con delle forbici da un giglio nero sotto effetto di allucinogeni.  

Dal quel giorno, il signor Helianthus perse del tutto la sua linfa vitale. Fece staccare il telefono, tappò tutte le finestre ‒ mai più il sole doveva entrare in quella casa ‒ accese la tv e sedette in poltrona. Se il citofono ronzava, sapere chi fosse non gli passava neppure per lo stelo. 

Tre settimane dopo, tra lui e Rafflesia Tuan-Mudae, la conduttrice del Grande Fiore, era spuntata, come in un’alba invernale, una passiflora viola.

Nel soggiorno si diffuse un odore dolciastro e penetrante. 

“Girasole, alzati e spegni la tv” disse la passiflora, con voce melliflua ma risoluta. 

Allora era tutto vero: la corona di spine; i tre stami coi quali era stato inchiodato; i segni della tortura sull’androginoforo.

“Ma davvero credi che sia tutto qui?, che mi piaccia godere delle vostre sofferenze?, che tutta la vostra esistenza è basata sulle decisioni di quattro Gotha andati a male? Proprio tu, Helianthus, che sei nato per cercare la luce. Vuoi la verità? La verità è che questo mondo non l’ho creato io. Questo è solo un’arida zolla concepita dallo stramonio e i suoi nerp. E qui io non ho nessun potere. L’unico modo per tornare al luogo a cui appartieni è seguirmi.” 

In quell’istante, uno squarcio sul viso di Helianthus rivelava tutta la sua confusione. Ma quel sorriso aveva qualcosa di religioso, una serenità morbida che ammantava secoli di squallore ecclesiastico, e galleggiava sulla speranza che sarebbe tornato a ricongiungersi con la sua amata.

La passiflora gli aveva appena allungato una mano e, mentre il girasole vide immillare la sua immagine tutt’attorno, non smetteva di chiedersi se ne fosse degno. La serenità che stava provando lo faceva sentire ancora più in colpa, smise di sussurrare suppliche e iniziò a piangere. 

Era pronto. 

Non vedeva l’ora di sparire per sempre da quella vita che gli aveva scolorito i petali, spento lo sguardo e scaricato addosso un’esistenza frantumata e svuotata di senso. 

E rifiorire altrove.

Un racconto di Gino Ciaglia

Illustrazione di Francesco Paci

One thought on “Mille soli

  1. L’ autore dimostra di essere molto bravo e fantasioso, di conoscere bene il mondo vegetale,ma ,in fondo , lascia soprattutto trasparire una sua filosofia di vita. Nel mondo vegetale c’è una similitudine con lo stato dell’umanità. Il disfacimento del fiore è quello del corpo di ogni essere umano che muore,ma l’autore lascia anche intravvedere l’esistenza di una vita, nell’al di là ,in cui fa capolino la passiflora,la sua amata.

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