IL PROPOSITO DEI FIORI

Riempi la vasca.

Fatto.

Misurane la temperatura interna, dice. 

Dico: 15,7°. 

Per capire l’acqua bisognerebbe annegare, dice mia madre, che non c’è più.

Per capire il passato, le rispondo, per capirlo davvero, toccherebbe rievocarli tutti in fila, i ricordi, irretirli e infine appenderli in bagno. Dimenticarli là, impiccati ai chiodi alle pareti. Dove prima macchie astratte, ora astrazione memoriale che è trapassata per la coscienza: convincersi, provarci almeno, che noi, il nostro fallimento, valiamo il peso d’un cadavere tanto illustre. Ma, che peso? L’acqua e la memoria sono incommensurabili. E poi, quale vita? Che l’acqua e la memoria, che la vita la fanno, partecipano del più lodevole e atroce dei caratteri: la volubilità. Nell’una, esalazione. Nell’altra, dissolvenza.

Spogliati, dice mia madre.

Ogni indumento abbandonato in terra è uno dei tuoi petali; denudandomi, ricordo: a fatica, scivolo: tu che avevi mangiato fiori di mandorlo e, caduta nel fiume, eri poi annegata. Tu che quei fiori li avevi coltivati, nel remoto giardino, premura di madre, oltre la stalla, e che ci tenevi a concimare con i miei escrementi di bimbo. Con i tuoi, e quelli di tuo marito. E gli avanzi di cibo. E le carcasse degli animali. Ché nel terreno di casa, dicevi, c’è troppo azoto e l’azoto indebolisce i fiori e il carbonio annienta l’azoto e accresce la concentrazione di cianuro nel mandorlo. Senza la merda, dicevi, niente cresce.

L’albero a cui ti dedicavi, dapprima ischeletrito, lo vedevo mutare sotto il tuo influsso – mi spuntavano i primi peli sul pube e attorno ai testicoli – e, col tempo, i suoi rami, che con un che di calligrafico si iscrivevano sulle nuvole biancazzurre, poi, quegli stessi, gemmavano, devoti a una natura ermetica, s’accendevano di rosa, e io così me la figuravo, la bellezza: grazia di mandorlo – la mia ingenuità. E, però, l’ingenuità inonda i cuori per metà soltanto e soltanto finché, pure lei, per mano della coscienza, così la memoria, non muta in una perversa presunzione d’innocenza. Di lì a poco mi sarebbe cresciuta la barba. Ma il proposito dei fiori, allora, mi era ignoto, come fino alla tua morte sarebbe rimasto ignoto anche il tuo ingegno, ancora in boccio.  

Sono nudo. Sono completamente adulto.    

Misura la temperatura interna alla vasca.

Dico: 10,6°.

È quasi il momento.  

Tu sei acqua, dico a mia madre. E di me, cosa rimane se ciò che sono stato è, oggi, una copia carbone sbiadita? Di me, all’istituto, dove quel bifolco di tuo marito, poi, con acume dopo che sei morta mi ha spedito, di quel me io mi sforzo di ricordare: ma so poco, che ero terrorizzato. Io ero terrorizzato dagli insetti nel cesso dell’istituto, grandi come pugni, e dunque, volentieri, la facevo là, accovacciandomi e separandomi con le mani le natiche, nel pitale in mezzo al dormitorio, mentre gli altri ospiti urlavano, in piedi sulle brande, incitandomi a sollevare la veste e a liberarmi. Non ne rimane niente, di loro, a saltare come cani festosi. Né delle loro urla con cui spronavano la mia eversione. Poi, so che, in isolamento, le pareti di pietra trasudavano. L’infermiere, quello buono, mi legava stretto ma non mi picchiava. Tutto, prima di scomparire, dura il tempo esatto di un grido. La mia idea di me all’istituto mi smentisce. La mia idea di te accanto al mandorlo ti nega.  

Sfila la cinta dai pantaloni. 

Dico: fatto.

Allacciatela al collo, dice mia madre dal fondo del fiume. 

L’ho annodata, dico. Ho freddo, dico. Tuo marito ha deciso di bruciarlo, il mandorlo, dopo la tua autopsia. Pure quel giorno faceva freddo. Siamo rimasti in silenzio a guardare le fiamme scontornate e il fumo salire. I petali inceneriti, al suolo. Nei giorni seguenti mi sono messo a raccogliere animali morti nel bosco vicino casa. Piccole lepri prese nelle tagliole dei cacciatori. Scoiattoli stroncati dalle fionde e uova di vipera non ancora schiuse. Avevo barattoli pieni di insetti decomposti. Mi abbassavo i pantaloni, poi, e ficcavo il culo nella terra tra le radici estinte: m’eccitavo all’idea che tu e il mandorlo sareste tornati a primavera nuova. Il gelo mi s’attaccava alla carne. Tumulavo tutto ciò che avevo accanto al tronco carbonizzato dell’albero, dove ho temuto d’aver soltanto immaginato che fossi. Tuo marito, un pomeriggio, mi ha trovato inumato là sotto, braccia e gambe e faccia, solo la bocca mi era rimasta al mondo. Dopo è arrivato l’istituto.

Prendi la benzina per l’accendino.

Dico: la temperatura dell’acqua nella vasca è di 5°, come il fiume oltre la stalla.

Getta la benzina nella vasca

Adesso vedo tutto. 

Usa l’accendino. 

Ma tutto, lontano dall’albero di mandorlo, è tutto lontano.

Il pelo dell’acqua brucia, adesso. 

Ti scalda? Sì.

Sei eccitato? Sì. 

Toccati con una mano e con l’altra tira la cinta che pende attraverso la fibbia e stringi  stringi finché riesci respira finché riesci c’è così tanta bellezza a questo mondo che non pare ce ne sia tanta bellezza il tempo è sempre uguale a sé stesso da cambiare continuamente il tempo e se una cosa ho imparato ad amare in vita e in morte è l’ambiguità lo senti il sangue accorciare il passo nelle tue vene senti la pressione gonfiarti la testa toccati fino a scoppiare e resterai eterno figlio mio se ora svieni cadi nella vasca e né tu né l’acqua né la memoria produrrete un grido che possa smorzarsi col tempo e annegare sarà capire e capendo anche tu come me resterai eterno.

Un racconto di Vincenzo Montisano

Illustrazione di Francesco Paci

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