L’isola

Dal fondo del lago non si vede niente. Dal suo perimetro chiuso è difficile sognare un’altra meta. Si vedono i passeri brucare sulle estremità opposte: irraggiungibili, in mezzo ai giunchi. Tutto è immobile. Le onde masticano, piano, senza far rumore. Se il mare è un intestino in ebollizione, il lago è un cadavere che si decompone. Un’ameba, enorme, che trasforma tutto in fango.

Ho raggiunto Gino. Ha gli occhi fissi sulle stelle. Per questo si perde, e qualcuno deve sempre scendere a raccattarlo. Passa le ore a guardarle e non ne conosce nemmeno una. Penso: beato lui, è più bello così. Per me le stelle hanno smesso di essere uno spettacolo gratuito da circa un ventennio. Forse nell’altro emisfero potrei perdermi anch’io. Forse le stelle sarebbero anche per me quei segni indecifrabili che sono per Gino, un alfabeto senza significati. Mentre lui le osserva come un bambino, i miei occhi ricostruiscono instancabili: un cane, un cigno, un toro, il carro, Cassiopea, un cavallo, lo scorpione. Linee invisibili che rintraccio ogni notte, non c’è speranza che riesca a disegnarne altre: a unire Ercole con il cigno e formare un mostro a tre teste. Ma Gino, eccolo là, a creare nuove storie in cieli sconosciuti.

Io, invece di guardare in alto, guardo lui. Mi racconta una storia, la solita storia:

Lontano, a est, c’era una volta un lago con un’isola. Tutti la conoscevano come l’Isola della felicità, ma nessuno c’era mai stato. L’isola, irraggiungibile, era abitata da solo un gruppo di musicisti felici. Un giorno il re ordinò di costruire un ponte che dalle sponde del lago arrivasse fino all’isola, un ponte fatto interamente di cannucce, una giustapposta all’altra. Cannuccia dopo cannuccia, gli uomini del re completarono il ponte e giunsero sull’isola. Da quel giorno, dell’isola non si seppe più nulla.

È rimasto lì Gino, a metà fra questa storia e le stelle, da quando Fatima gliel’ha raccontata. È brava, Fatima. Una brava pusher. Non fa mai stronzate e la spinge come fosse polvere magica: con questa storia ha fottuto Gino peggio di un marmocchio con Peter Pan. Secondo me Gino la cerca davvero, l’isola. Bravo Gino, magari è così che si diventa felici. Io, ogni volta che lo guardo negli occhi, mi sembra sempre di vederli all’insù. Come se si facessero una risatina sul mondo di nascosto. Fatima direbbe che lui vede il mondo attraverso le lenti rosa, poi scoppierebbe in una grassa risata. Io l’unico rosa in cui credo sono i petali di papavero, quando si trasformano in frutti immaturi e piangono lacrime acide dalla pancia. 

L’altro giorno ho guardato le satellitari: nel buio del mondo la polvere rosa sta scomparendo. In un anno il raccolto di poppy è quasi scomparso fra le mani dei talebani. La prendono a calci con le cannucce. Gino direbbe che sono gli emissari del re che stanno distruggendo l’isola della felicità, con le loro cannucce. Ma lui non si interessa di queste cose. A lui basta la dose che gli passo io, perché si fida di me. Sono io che ho il numero di Fatima salvato in rubrica, io che mi informo dei prezzi, che porto i soldi. Che poi secondo me Fatima non è nemmeno il suo vero nome. Fatima, la protettrice dei viaggiatori. Magari è vero, è lei che protegge Gino nei suoi viaggi interstellari, col suo occhio che vede tutto. A Gino d’altronde bastano le sue stelle, mentre io da qui non vedo un tubo di niente. Anche Cassiopea è scomparsa dal cielo.

Ma ecco, Gino mi chiama e mi guarda con i suoi occhi all’insù. Mi mette una mano in tasca e la tira fuori, il nostro pane bruciato. Stringo i pugni finché il sangue non si comprime abbastanza da farmi girare la testa. Gino non mi guarda più, è tornato al suo cielo. Io rimango al mio lago. Ma aspetta, Gino, lo chiamo, gli dico, guarda: nel lago, ora, si forma qualcosa! Una mezzaluna d’oro risplende al centro del lago. È l’isola, dice Gino, senza staccare gli occhi dalle sue luci. È l’isola, Gino, hai ragione. 

Cerchiamo le cannucce, allora.

Un racconto di Esther Bondì

Illustrazione di Mirtilli

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