NEL POZZO

Il pozzo era un buco nero; Demetrio e il gatto, seduti sul bordo, ci guardavano dentro. Le gambe del primo penzolavano nel vuoto, la coda del secondo restava agganciata come un uncino alla pietra grezza.

Non temeva niente, Demetrio. Lui la morte la vedeva ogni giorno e gli sembrava una stronzata. Demetrio senza paura: il custode del cimitero.

“Oggi ne hanno portato uno grosso quanto te”, aveva detto al gatto. “Cioè, è arrivato già nel tavuto, chiuso e tutto. Ma quattro anni ci aveva. Sarà stato alto così”. Dicendolo, si era sporto verso il gatto fino a sfiorargli le orecchie col palmo della mano destra. Con la sinistra, cercava le Winston rosse e l’accendino che aveva tolto dalla tasca di dietro dei jeans appena arrivato al pozzo. Dovevano essere lì, da qualche parte. A fare luce, quella notte, c’erano solo gli occhi gialli del gatto.

“Nicolino, Nicolino… Madonna santa come gridava quella, oh! La madre, dico, ficcata qua m’è rimasta”, aveva detto dandosi due colpi sulla fronte. “Piangeva per i soldi, mica per altro. Quattro anni non sono niente, sono solo i soldi che ci hai sprecato. A saperlo prima, quando era nato faceva meglio a buttarlo di sotto”. Nel pozzo, voleva dire. Tanto profondo che, se ci sputava dentro, sopra non ritornava nemmeno un pluf.

Il gatto non aveva un nome perché Demetrio non gliel’aveva dato. A chi lo domandava, lui rispondeva “È già tanto se me lo sono tenuto”. I suoi fratelli avevano fatto la fine che sarebbe spettata a Nicolino. In tutto erano sei; Demetrio li aveva trovati un anno prima, nel capanno della legna dove una randagia era andata a partorirli. Sei gatti da sfamare, aveva pensato Demetrio. Sta zoccola, poi ci si abitua e viene a farne altri. E altri. Solo bestie da sfamare.

Li aveva messi in uno di quei grandi sacchi di tessuto grezzo dove conservava le patate: i gatti, e tre pietre belle pesanti. Poi aveva chiuso il sacco facendo un nodo con una corda, e l’aveva calato nel pozzo. I gatti si dimenavano – Demetrio poteva sentire la loro paura ondeggiare col sacco, risalire lungo le vibrazioni della corda. Si divertiva così, gli piaceva l’inutilità di certi affanni, come quando si metteva in prima fila per vedere le vedove battere i pugni contro le lapidi dei mariti ormai belli che andati. I gatti erano già morti, e come stupidi continuavano a miagolare. E a lui veniva da ridere, per questo non li mollava. Li aveva fatti scendere piano, finché la profondità non era diventata troppa e in superficie non riusciva più ad arrivare un lamento. Finché il sacco non aveva toccato l’acqua, inzuppandosi per poi andare a fondo.

Il gatto lo stava aspettando sullo zerbino; Demetrio, quegli occhi tondi, enormi che gli prendevano mezza faccia, li aveva visti da lontano. Forse si era nascosto, o forse era schizzato via dal sacco prima che lui trovasse la corda per chiuderlo. Ma l’aveva fatto fesso. Dei sei, infatti, era quello che sembrava il più sveglio: due occhi attenti, il pelo raso e ispido come carta vetrata rossa. E dato che non c’erano altri sacchi da sprecare, mentre i topi sì, non mancavano, Demetrio aveva deciso di risparmiarlo. Lo teneva da un anno e mai una volta se n’era pentito. Proprio il più sveglio. A quattro mesi, aveva già imparato a camminare su due zampe.

Intanto Demetrio aveva ritrovato le sigarette e ne aveva prese due, una per sé, l’altra per il gatto. Ancora spente, le passava da una mano all’altra continuando a raccontare.

“È finito impiccato, Nicolino. Giocava con una tenda e ci è rimasto appeso, sto ritardato. Poteva starci attenta, quella puttana. Nicolino, Nicolino… quattro anni e basta, solo i soldi spesi per i pannolini. Che cazzo piangi? Piangi per i soldi, per questo piangi”.

“È una brutta storia”, aveva detto girando la faccia verso il gatto, “ma ti ci devi abituare. E poi ci sta di peggio”. Stava pensando alla sua ernia, per quella c’era davvero da impazzirci. Invece il gatto era sano e muscoloso. Riusciva a spaccare la legna per ore. Trasportava l’aratro meglio di un trattore e, tutto questo, a costo zero. Si mangiava i topi, ne mandava giù a dozzine, e per Demetrio, quando tornava dal lavoro, faceva trovare pure la pasta sulla tavola. A sei mesi, già sapeva cucinare.

“Da domani tu vieni con me al camposanto”. Il gatto, forte com’era, avrebbe fatto i lavori di fatica, mentre Demetrio si sarebbe occupato delle cose importanti. Doveva controllare i becchini, per dirne una, che stavano lì, pronti a fregarsi le catenine e gli anelli d’oro quando c’era qualche morto vecchio di trent’anni da spostare. Tutta roba che invece toccava a lui. Che cazzo avevano fatto, loro, i beccamorti figli di puttana, per quelle ossa rinsecchite? Niente. Era stato Demetrio, solamente lui, a sorvegliarle.

Il prezzo del gatto era una Winston rossa al giorno: manco due lire. Demetrio gliel’aveva messa in bocca dopo essersi acceso la sua. “To’”, aveva detto poi, coprendo il clic dell’accendino. La fiamma traballava e accentuava i chiaroscuri. Gli occhi del gatto sembravano liquidi.

Le iridi facevano da bordo a due buchi neri senza fondo. Quante bestie ci stanno dentro, si era chiesto Demetrio. Quanti Nicolini? Eppure, riflesso sulle cornee, riusciva a vedere solo sé stesso.

Al gatto era bastato un calcio per spingerlo nel pozzo. Demetrio era finito in acqua senza fare pluf.

Un racconto di Valentina Scottino

Illustrazione di Federico Meduri

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