Possibili interazioni

Nelle sale d’attesa, l’acquario è un cliché.
Pollice; indice; medio… sei lettere, due C, l’accento è acuto e va alla fine.
Il dottore mi fece entrare e mi lasciò sola. Mi misi comoda ad aspettare il mio turno pur sapendo di essere
l’ultima paziente del venerdì. Faceva caldo e il divano si appiccicava alle gambe. Dovevo sollevarle ogni
tanto, per evitare che la pelle del rivestimento si incollasse alla mia e non riuscissi più a lasciare quel
posto.
Dalla pila di riviste su un tavolino ne presi una che parlava di giardinaggio. Una donna bionda indossava
dei guanti enormi e sorrideva indicando una buca fresca; accanto a lei, una paletta e delle cesoie. Nella
pagina successiva, la stessa foto, ma al posto della buca era spuntato un cespuglio di narcisi. La donna
appariva identica: i capelli cristallizzati nella stessa posizione, i vestiti che formavano le stesse pieghe.
Cominciai allora a cercare le prove del fotomontaggio: luci sbagliate; contorni tagliati di netto; margini
sfocati. Non ne trovai e mi convinsi che la crescita miracolosa fosse davvero opera delle sue energie.
Ero solo io, quindi, a non averne mai? L’avrei chiesto al dottore.
Contai con le dita fino a capire che era in ritardo di undici minuti. Undici, come le piastrelle del
pavimento di quella stanza, che passavo in rassegna per l’ennesima volta. Mi accorsi dello smalto celeste
ai miei piedi, residuo di una vecchia pedicure quasi del tutto andata. Non avevo avuto la forza di toglierlo
e il colore superstite faceva sembrare le unghie dei ritagli. Quegli imbarazzanti avanzi di cheratina
sbucavano da un paio di sandali perché nel pomeriggio, vestendomi, non ricordavo come allacciare le
scarpe. Non ricordavo perché dovessi allacciare le scarpe.
“Visita di controllo ore 16.00” recitava il promemoria che, però, avevo strategicamente lasciato sul
comodino. Dovevo avere più fiducia nella terapia, dicevano, ma preferivo annotarmi le cose a cui avevo
smesso di dare importanza.
“Ti sei fatta la doccia, oggi?” chiedeva un foglietto sul lavandino, come una caccia al tesoro studiata per
condurmi pulita e in orario fuori di casa.
Abbandonai sul tavolino la rivista aperta e mi annusai le ascelle, colta da un brivido. Anche la signora dei
narcisi aveva cambiato espressione.
Allucinazioni?
Pensai subito al flacone.
“Hai preso le gocce? Tutte?” interrogava il post-it appiccicato allo specchio del bagno. L’avevo staccato e
infilato in borsa insieme agli altri due, quindi era probabile che prima mi fossi lavata e che la signora della
rivista, in realtà, avesse ancora la stessa faccia.
Capitava spesso di saltare una dose. Cominciavo a contare, qualcosa mi distraeva e dimenticavo dove
fossi arrivata. Le voci di un elenco si separano con un punto e virgola alla fine; le voci nella mia testa si
accavallano tutte, senza punteggiatura a distinguerle.
Testa: pollice; indice; medio… cinque lettere, la S va in mezzo.
A volte avevo compensato i deficit di attenzione raddoppiando le quantità; altre, buttando tutto nel water,
tirando lo sciacquone e lasciando che il liquido senza sapore e senza odore, come prometteva il
bugiardino, si disperdesse nella fogna.

Mi chiedevo che effetto avesse l’aloperidolo sui ratti. Avrebbero finalmente terminato l’università e
rimandato il pensiero di saltare da un balcone, sognando di volare?
Speravo che, perlomeno, capissero da soli di dover tagliare i carboidrati.
«Ben ritrovata» disse all’improvviso il dottore, facendo capolino dal suo studio.
Mi alzai di scatto, scollandomi dal divano: tra la sua pelle e la mia, un cerotto strappato.
Il dottore era in piedi e teneva la porta aperta per farmi entrare. Resistetti all’urgenza di controllare se un
altro pezzo di me si fosse staccato e giacesse morto alle mie spalle.
«È riuscita a fare i compiti?» chiese quando mi sedetti sulla poltrona di fronte a lui.
La mia mano scivolò a sfiorare la copertina sul fondo della borsa. Voleva sapere del diario. Gli dissi che
non era facile annotare tutto. Che a volte dimenticavo anche come scrivere il mio nome. «Le lettere mi
sembrano giuste, ma sono sempre nel posto sbagliato» dissi.
«Siamo qui proprio per questo» rispose lui. «Per sistemare il suo alfabeto. Sta prendendo i farmaci?»
Si alzò e andò a chiudere la porta, lasciandomi tempo per riflettere.
L’immagine di ratti grassi e felici tornò a farmi compagnia.
«Sempre» mentii. «Li studiano sui topi, vero? Che effetto fanno a loro?»
«Oh, molto incoraggiante. Cerchi i risultati del labirinto di Morris».
«Sono animali intelligenti» bofonchiai senza seguirlo.
«Qualcuno li tiene in casa al posto dei cani. Se lo immagina un roditore nei panni di Rin Tin Tin?» Era
compiaciuto dalla stessa battuta a cui, però, io non reagii.
«No, lei è troppo giovane per Rin Tin Tin».
«Non sapevo si potessero addomesticare» dissi dubbiosa.
«Tutto si addomestica» ribatté lui.
Addomesticare: pollice; indice; medio… tredici lettere, doppia D.
«Guardi». Il dottore digitò qualcosa sul suo computer e girò lo schermo verso di me.
Era il video di una donna che, tra gli sguardi incuriositi dei presenti, passeggiava proprio con due ratti al
guinzaglio.
Pensai al flacone e alle gocce, che forse non circolavano in quantità sufficiente nel mio sangue, ma che di
sicuro scorrevano da mesi in una rete di tubi sotterranei.
Mi sporsi per osservarli più da vicino. Quando girarono la testa verso l’obiettivo, avrei giurato che
stessero davvero sorridendo.

Un racconto di Silvia Fornaroli

Illustrazione di Claudia Verni

Lascia un commento