Il funambolo

Bologna, 18 giugno 1976

Caro Simone,

ho saputo, da Veronica, che venderai l’appartamento di via Galliera. Quell’appartamento, io e tuo padre lo comperammo per te anni fa con la speranza che ci saresti andato ad abitare, un giorno. Quel giorno, ovviamente, non vedrà mai la luce, dal momento che tu una volta sei qui e l’altra volta solo dio sa dove. Tu hai sempre detto che le case sono fatte per inchiodare i cuori e che, di portarti i chiodi addosso, faresti volentieri a meno. Te ne andasti a Roma e l’appartamento rimase a prendere la polvere. Ci portavi, quando tornavi a Bologna – cioè quando ci degnavi della tua presenza, che è sempre stata piuttosto sfuggente e aleatoria – quel tuo certo amico, Nicola. Quel ragazzo, dalla chioma zazzeruta e la barba nera, che si mantiene suonando per le strade, io lo vidi di sfuggita un giorno che camminavo con tua sorella in Piazza Minghetti, ai chioschi di fiori. Doveva essere aprile, se non sbaglio. E ho pensato cosa ci trovassi tu in una persona così trasandata. Non che tu sia da meno, beninteso: la trasandatezza la indossi come certi santoni francescani indossano il loro saio. In altre parole, tu nella trasandatezza ti trovi bene. Mi chiedo allora perché tu abbia studiato Antropologia, se poi sei finito a fare l’artista di strada quando avresti potuto intraprendere una carriera ben più prosperosa. Ora ti occupi di robe di giocoleria e spettacoli di funambolismo a cui francamente evito di assistere dal momento che, come ben sai, ho il cuore leggero. Tu dici sempre invece che io ho il cuore pesante, per questo è sempre instabile: perché si riempie di crucci. Ho un cuore in disordine, in sostanza. La vera leggerezza l’hai imparata tu, ribatti: non hai carne, ma piume d’uccello a foderarti la pelle. Allora io ribatto contro e tu ribatti a tua volta e litighiamo e agitiamo le mani e scuotiamo forte le teste. Perché tu la pensi in un modo e io in un altro. Talvolta sbatacchiamo persino le porte e tiriamo pugni sulla tavola; allora tu imbocchi l’uscita, ti allontani spiccando il volo con quelle tue piume d’uccello. Se provo a trattenerti, serve a ben poco: in mano mi rimane solo un malloppo di penne grigie.  

Che io e te non sappiamo parlarci è risaputo. Non parli nemmeno con tuo padre; tuttavia, con lui vai più d’accordo. Tuo padre è comprensivo, non giudica mai, dici. Talvolta lo rimprovero di non esercitare, su di te, alcuna autorevolezza, lasciando a me la piena responsabilità di fronteggiare la tua persona.  Che sia stata troppo severa, con te? Ho nutrito aspettative troppo alte? Ecco, forse sono state le mie aspettative a librarsi in aria come uno stormo di rondini in primavera; mi hanno portato troppo in alto e io, che ho paura delle altezze, sono precipitata in basso come un macigno, col cuore in frantumi. In disordine, appunto.   

La verità, Simone, è che io non ti capisco: non capisco le tue scelte perché non capisco il tuo modo di vivere. Veronica dice di lasciarti stare. Tuo padre fa un cenno con la mano; dice, Simone sa il fatto suo. Ma io non sono brava a lasciar perdere le cose e quando tornavi e quando ripartivi per me era come se il tuo egoismo spadroneggiasse a largo raggio sulle nostre presenze e sulle nostre attese. Ti rintanavi nell’appartamento di via Galliera con quel tuo amico e in fretta sparivi; rimanevano, in quell’appartamento, solo i detriti di un uragano. Venivo a pulire l’appartamento e trovavo cassetti aperti, lenzuola rivoltate, i tavoli ingombri all’intorno. Ti chiamavo per protestare e tu non ti facevi trovare mai. Stavi in giro con le tue baracche, magari a dondolare lungo un filo sulla testa di spettatori impressionati dal tuo equilibrio, dal tuo snodarti come una cicogna, col terrore di vederti cadere, precipitare da un momento all’altro. 

E se poi precipitassi sul serio? Tua sorella t’ha visto, qualche volta. Dice che dopo un po’ la paura passa, perché c’è solo la meraviglia. Ma Veronica certe cose me le racconta solo per farmi stare tranquilla e io tranquilla non lo sono mai: macino pensieri e nel mio pensarti qui e là c’è sempre il sospetto che tu non stia bene o che ti manchi una coperta o che non abbia abbastanza soldi per mangiare. Io, Simone, non la conosco la tua leggerezza, e forse la invidio pure. Tu dici che sei portato per guardare le cose dall’alto mentre io dal basso, e da questa distanza noi ci si parla senza comprenderci, perché nel mezzo stormisce il vento. 

Io non lo dico in giro che fai l’artista: il funambolo. Io su di te mento, alle amiche che mi chiedono di te racconto bugie, dico che stai all’estero, a fare ricerca. Mento perché mi mette paura dire che cammini nel vuoto sulle teste delle persone. E forse è vero che ho il cuore pesante, come tu dici, e che talvolta vorrei farmi leggera come i tuoi piedi. Ma non sia mai tu spiccassi il volo, non saprei più dove rintracciarti. 

Mi rendo conto che scriverti queste cose forse t’irriterà soltanto. Ma il fatto che tu voglia vendere l’appartamento per me è il segno incontrovertibile d’una separazione che vorrei solo rimandare: se te ne vai da qui, dove te ne andrai? Starai bene? Avrai tutto il necessario? 

Immagino dovrei allenarmi, un po’ alla volta, a camminare sospesa sulle cose, a guardarle dall’alto, come fai tu. O forse sto ancora continuando ad aspettarmi un gesto, un cenno di riconoscimento. Un saluto. Quel che è. Chissà, non lo so più.

Tua madre

Un racconto di Edoardo Maresca

Illustrazione di Carlo Stampella

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