Delirio Bianco

Credendo di sognare, mormoro ciò che nel sogno preferisco tacere. Ho i capelli in bocca e la penombra calda umida sul petto; le manine lungo i fianchi. La pelle della fronte e del collo esala la febbre.

Dell’onta di poco prima non c’è più traccia. Percepisco soltanto la reminiscenza dell’odore stomachevole, che non vuole andare via.

“Lili, svegliati.”

Di colpo apro gli occhi. Nella foschia del malessere, mia madre è un alberello magro che si protende su di me. Sussulto; i suoi ramoscelli inanellati d’argento mi scuotono con delicatezza in attesa di un riconoscimento.

Intanto ha acceso l’abat jour della nonna, sul comodino. 

L’epifania del suo viso mi allieta e mi tortura insieme: perché non era nel sogno con me? Mentre continua a scrollarmi piano, mi interrogo più volte sulle sue menzogne, sulla promessa non mantenuta di avere cura della sua bambina. 

“Lili, amore.”

Mi tocca la fronte, ma non sembra preoccupata.

“Dobbiamo fare il bagno” dice.

Quando l’altro giorno eravamo al supermercato, i wurstel al formaggio sono finiti nel carrello. Non li avevo mai mangiati prima e non so come siano arrivati a far parte della nostra spesa, ma se qualcosa succede ci sarà una ragione. 

Proprio perché non me li spiegavo né riuscivo a capacitarmi del fatto che sarebbero finiti nella mia bocca, non smettevo di osservarli con un certo stupore. 

Avevano l’aria di non essere commestibili, o perlomeno di non essere poi tanto buoni. A un certo punto ho anche pensato di gettarli via o di avvisare mia madre che nel carrello ci fosse un cibo strano che non volevo, ma mi è venuto il terrore che mi desse la colpa, che mi dicesse che li avevo messi lì.

Provavo una vergogna soffocante al solo pensiero di essere rimproverata.

Sì, ci ho pensato finché non siamo arrivati in cassa e ormai era troppo tardi.

Alla fine mia madre li ha pagati senza accorgersene. 

Mi sono detta che era meglio così.

I wurstel al formaggio giganteggiavano nel mio piatto. 

Dovevo mangiarli per forza, ma li trovavo ripugnanti. 

Spostavo lo sguardo con cadenza regolare dal bianco denso del formaggio che fuoriusciva dalla punta rosea, a mia madre, visibilmente assorta.

Il suo profilo tra il greco e un leggiadro aquilino, la pelle appena solcata dal matrimonio arenatosi. Le pupille, che non riuscivo a vedere.

Non sapevo se gioire della sua disattenzione o disperarmi sgolarmi gettarmi giù da una rampa di scale senza fine purché mi notasse.

Purché gridasse a sua volta, afferrasse il piatto e lanciasse via quell’abominio.

Il piatto è vuoto.

Mia madre non ha negli occhi che un paio di pratiche di separazione.

Il silenzio è rimasto vergine intatto illibato puro casto immacolato.

Io no.

Tutt’attorno, l’acqua si sporca e cresce. Mia madre mi strofina la schiena con la spugna. L’acqua scorre piano sulla mia pelle ancora febbricitante.

Vorrei dirle, Basta. Ti prego, smettila perché non serve a niente. Vorrei dirle che non è davvero acqua che pulisce, che questa è acqua cattiva contaminata che uccide le bambine incapaci di dire le cose brutte alla mamma.

“Quanta sporcizia, Lili!”

Comincia a lavarmi i capelli, massaggiando con dolcezza prima la cute, poi le punte. 

“Anche i capelli, vanno lavati per bene.”

I capelli vanno tagliati rasati estirpati uno per uno, o almeno così penso io senza spiegarmi il perché. Non so cosa c’entrano loro, ma non li voglio più.

Ho una gran voglia di rubare un paio di forbici. 

“Hai dei capelli così belli, ora che ti sono cresciuti. E tu, sei bellissima.”

Nel riquadro di metallo della maniglia scorgo la mia magrezza. Le mie occhiaie, che oggi mi sembrano più scure. Le mie manine del tutto inutili, applicate ai polsi come stupidi orpelli, buoni solo per essere mangiati da chiunque lo voglia, come pugni di roselline di zucchero.

L’acqua è tantissima, vuole divorarmi. La luce al neon è accecante per i miei occhi che avverto già inabissati, è violentemente bianca e denuda le rughe più nascoste sulle tempie di mia madre. Ha le dita nei miei capelli, ma lei non c’è; i ramoscelli secchi inanellati stanchi sono qui, ma la chioma è altrove, tra le carte di una professione che la assorbe nella maniera più completa, nell’aborto di un’armonia coniugale che non acconsente a farsi raschiare via.

Ho l’acqua alla gola e lei non si accorge di niente, mi rivolge un sorriso agrodolce come se la mia morte liquida fosse fatta d’aria e di pace, come se non esistesse niente niente niente di anormale.

“Amore, cosa c’è?”

Cosa c’è? C’è che l’acqua continua a salire mentre ho la febbre lo stomaco sottosopra e uno sporco inestinguibile fin nelle ossa nelle viscere nell’anima nel nome di battesimo, Cristo!, nel nome di battesimo e tu pensi che strofinandomi addosso una stupida spugna e del bagnoschiuma tu possa salvarmi da un peccato mortale di cui non conosci nemmeno l’anticamera nemmeno lo zerbino, e di cui non conoscerai mai nulla perché sto annegando nell’acqua che non purifica e nel bianco denso e nell’autodifesa di questo immondo gabinetto di corpo un tempo abitato dall’anima di una bambina al posto della quale lo sai cosa c’è lo sai cosa c’è lo sai cosa c’è?

“Niente. Non c’è niente.”

Un racconto di Fosca Navarra

Illustrazione di Gianni Lo Judice

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