Francesco paci

Divago errando

Dopo aver sistemato le nostre cose in camera, decidiamo di prendere una long-boat e raggiungere una delle isole qui vicino, sdraiarci su una spiaggia che immaginiamo deserta, e lasciare alle onde il compito di lavare via la stanchezza e il bagaglio di situazioni irrisolte che ci ha portati qui. Ma giunti al porto le nuvole che già coprivano il cielo esplodono in un acquazzone violento. C’è sempre qualcosa di liberatorio nel furore della natura, diventa un’estensione della nostra voglia di urlare, soprattutto quando non siamo in grado di farlo. 

La gente corre, cerca riparo sotto tettoie di giunco e foglie di banano. L’acqua precipita con costanza, si tuffa senza paura da un cielo altissimo, diventa frustrante per chi ha altro da fare. Ci avviamo verso un locale per mangiare un boccone e non capiamo niente di quello che c’è scritto sul menu. Prendiamo una pizza.

Un irlandese al tavolo accanto ha voglia di chiacchierare. È in viaggio con il fratello che studia a Singapore. Ci parla di un tempio in cima a una scalinata infinita, nei pressi di Krabi. La pioggia smette e il cielo si riempie di blu, gli acquazzoni sono così da queste parti: svuotano la cisterna a secchi, e in breve è tutto finito. Wat Tham Seva, il tempio della tigre, diventa la nostra meta.

La montagna sembra alta, ma ci convinciamo che si tratti di una questione di prospettiva – in ufficio facciamo ogni giorno quattro piani a piedi nella pausa pranzo. Ci avviamo su per i gradini, accompagnati da vivaci macachi che non sembrano spaventati dalla nostra presenza. Man mano che saliamo l’afa diventa un’umidità appiccicosa che si confonde con il sudore, anche se il sole è tornato a nascondersi dietro le nuvole. Grondiamo acqua e arranchiamo, rinunciamo alla dignità e usiamo anche le mani come supporto. Il cuore pompa così violento che le orecchie non sentono altro, a parte le urla dei macachi che si avvicinano temerari ai nostri zaini. 

La cima sembra così lontana, l’idea di dover poi scendere è quasi paralizzante. E se rinunciassimo?

Siamo piegati in due, senza respiro, la vista appannata. Ma continuiamo e infine vediamo il tempio, sontuoso, ricco di dorature, quasi brutto nel suo drappeggio barocco, eppure una visione gloriosa per i nostri polmoni: siamo in vetta!

Sotto una buganvillea rosa due monaci in sai arancioni scattano selfie con i cellulari. Ce ne sono altri nel cortile interno della struttura, in schiera, intonano devoti un canto senza posa, pacifico, che non so interpretare, in una lingua che mi è totalmente estranea, votata a un credo che conosco appena. Un moto sconosciuto oscilla in me, mosso da una curiosità ignara, quella di chi si mette alla ricerca senza sapere di cosa. Da un albero cade un fiore bianco col cuore giallo, un frangipani. Lo colgo per Lara, che non è qui. La mia zingara. Glielo mando con WhatsApp, non aspetto di vedere se lo riceve.

Quando alzo lo sguardo, eccola lì. L’immagine che l’irlandese aveva provato a descriverci nel suo accento incomprensibile impastato di birra. Sullo sfondo di un sole calante nell’oro si stagliano le vette morbide di monti sfumati dalla foschia, creano l’illusione di una superficie piatta in cui i contorni collinari si sovrappongono, linee disegnate con sapienza, giochi di transparenze che ispirano pacifiche spiritualità. Il mio dito non si stacca dal pulsante di scatto, frenetico.

Comincia a piovere. I miei compagni vogliono tornare giù, spaventati dalle scale scivolose e dal buio. Io rimango fino alla fine del tramonto, ancora vivo sotto le nuvole di pioggia, e in quella morte temporanea si sciolgono sensazioni nostalgiche e placide, di tempi e momenti che non sono stati, che furono per altri, che non sono per me. Di qualcuno che non c’è, o non c’è abbastanza. La mia pelle, bagnata, ha sete, i pori cercano di espandersi, non riesco a sentire la vita completa. Vorrei che la parola amore venisse dimenticata, assorbita e vissuta. Vorrei che non errasse nella mia mente smarrita, inquieta, incapace di adagiarsi su un paio di labbra sorridenti. Riappare il vecchio che, giù, mi ha sorriso sdentato e gioioso. Un senso di colpa per aver rubato quella immagine in una fotografia. E se un giorno un’orda di sconosciuti mi entrasse in casa a fotografare tutto di me? Scoprirebbe l’assenza di Lara, capirebbe che questo non è uno zoo di animali felici, pettinati e messi in posa. Ma in prigione, forse, mi ci sono messo da solo. 

Lara ha visto l’immagine del frangipani ma l’ha ignorata. Fisso lo schermo del telefono finché si spegne. È così difficile definire i sentimenti. La raggiungo ogni volta che il circo fissa una meta, le nostre mani si intrecciano per qualche giorno alle nostre parole, poi mi rimetto sul treno di ritorno. Ma ieri, prima di partire, ha voluto chiarire il nostro rapporto. Manteniamolo leggero, senza il peso dei sentimenti, stiamo bene così, no? Per orgoglio ho piegato la testa in un sì, per non scoprire che non le manco quanto lei manca a me. 

Smette di piovere. Guardo le nuvole che si allontanano. Ho i calzini inzuppati, li tolgo e li butto in un secchio della spazzatura. Chissà chi verrà a prendere i miei rifiuti. Rinuncio alle scarpe e scendo a piedi nudi. Il sole sta dall’altra parte, da questo lato del monte non ci sono luci. Mentre discendo nell’oscurità, avverto sensazioni miste – ansia, terrore, solitudine. Euforia. Di nuovo quella voglia. Urlano i macachi, mi stordiscono. Chiudo gli occhi per trattenere l’acquazzone. Apro la bocca e la terra trema allo scoppio di un tuono. Urlo anch’io.

Un racconto di Thomas Lehn

Illustrazione di Francesco Paci

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