Il sapore dell’acqua

L’acqua ha cambiato sapore mercoledì, e giovedì abbiamo iniziato a morire. È una morte strana, lenta e poi improvvisa. Mi viene da pensare che forse tutte le morti siano così, ma questa lo è in modo particolare: ci si sente deboli per un po’ e poi arriva un brutto attacco di tosse, di quelli che ti scaraventano per terra e finiscono solo quando hai smesso di respirare.

Il primo a morire è stato mio padre, e dopo di lui è morto il nostro vicino. A dirla tutta, anch’io sento le zampe davanti deboli, come di pezza. Il mio pelo è spento, di un grigio sporco che quasi mi fa vergognare. Certo, ci sono cose più importanti a cui pensare adesso. L’acqua, per esempio, l’acqua che ha qualcosa che non va. Ho provato a tenervi lontano mio fratello, e ieri è sparito. Devono averlo preso i grandi animali bianchi, e non so se sperare che torni. Magari gli daranno dell’acqua buona, ma non mi fido.

Un tempo, quando ero ancora più piccolo di lui, credevo che i grandi animali bianchi fossero nostri amici. La mamma mi aveva detto che quando un topo stava male gli animali bianchi lo curavano, e che quando un topo stava troppo male lo portavano fuori, nel paradiso verde. Quello che mia madre non sapeva è che quel paradiso è solo per i grandi animali bianchi. L’ho scoperto due mesi fa, una volta che uno di loro mi ha lasciato vicino al suo telefono. L’ho toccato come lo toccava lui, ripetendo i movimenti che centinaia di volte gli avevo visto fare su quell’enorme schermo, e le ho viste, le foto del paradiso, mi sono persino sforzato di memorizzarne i dettagli. Nelle foto c’erano loro, i grandi animali bianchi, solo che non erano più bianchi, non avevano il pelo telato che li ricopre normalmente. In qualche foto c’erano anche quelli che chiamano cani, ma da nessuna parte, nemmeno dietro i sassi o tra l’erba, c’era traccia di noi topi. Forse i topi diventano invisibili quando vanno in paradiso, ha detto il capo anziano, e tutti gli altri hanno subito avuto fretta di concordare. Ma io non sono convinto.

È un grande animale bianco a versarci l’acqua che beviamo e che ha cambiato sapore. Riempie la vaschetta in fondo alla gabbia tutte le mattine, e noi beviamo da lì perché non possiamo bere altrove. Il capo anziano, che si fida di lui, ha detto che se ci fosse qualcosa nell’acqua lo vedremmo, perché è trasparente, e sostiene che ci stiamo lasciando suggestionare, anzi che io stia suggestionando gli altri perché non accetto la morte di mio padre.

Adesso è quasi ora di cena. Come tutti i giorni, un grande animale bianco viene a portarci il cibo, quello che una volta l’ho sentito definire “i croccantini dei campioni”. A me i croccantini piacciono, e anche tanto, ma l’ordine in cui ci avviciniamo alla mangiatoia è deciso dal capo anziano, e oggi, proprio come ieri, io sono l’ultimo. Vuol dire porzione ridotta, vuol dire praticamente digiuno. E così anche stasera non mangio e non bevo. Quando arrivano i croccantini è il capo anziano ad andare per primo, e siamo tutti in fila dietro di lui quando comincia a tossire e cade sulla schiena, guardandoci allucinato. I suoi occhi sembrano scoppiare in mille richieste di aiuto. Noi ci precipitiamo a soccorrerlo, persino io, ma sappiamo che non c’è rimedio, e non passano nemmeno dieci secondi che è già morto, un vecchio topo senza vita che nonostante tutto riesce comunque a farmi pena. In mezzo alla calca c’è anche suo figlio, piccolo e in lacrime, un cucciolo appena svezzato.

Il grande animale bianco che ci aveva dato i croccantini ha visto tutto. Squittisce nella sua lingua e si avvicina di nuovo alla nostra gabbia per prendere il corpo del capo anziano. Ora o mai più. L’animale bianco ha aperto la gabbia e io schizzo fuori, mi arrampico sul suo braccio mentre lui, colto di sorpresa, si dimena sotto di me che salgo in cima, sulla testa pelosa. Le sue zampe mi cercano forsennate mentre gli corro addosso, ma non riesce ad acciuffarmi, ha troppa paura. C’è una finestra aperta nel laboratorio, devo raggiungerla. A ogni passo mi sforzo di ignorare l’impulso di rifugiarmi in un angolino. Non ho scampo, o la finestra o la morte, e così corro come un pazzo, sentendomi addosso gli sguardi di tutti, corro finché non mi manca il fiato, e corro anche dopo, quando ormai mi sento morire e vorrei solo chiudere gli occhi e tornare indietro. Il grande animale bianco non ha mai smesso di inseguirmi. Sento i colpi delle sue zampe sul pavimento e riesco a immaginarlo dietro di me, proteso in avanti per agguantarmi con la sua presa sicura e irreversibile, la stessa in cui ha avvolto il capo anziano. Ma il grande animale bianco non ha fatto l’unica cosa che avrebbe dovuto fare, non ha chiuso la finestra, e io, io che stamattina ero nella gabbia, ora sono fuori, per strada, oltre l’insegna che recita, in lettere nere chiazzate di ruggine, “EcoSan derattizzazioni – distaccamento sviluppo”.

Il paradiso verde in realtà è grigio chiaro. Piccole gocce mi arrivano sulla testa, e io mi sento libero, libero di spalancare la bocca: ha un buon sapore quest’acqua.

Un racconto di Mariastella Cascone

Illustrazione di Federico Meduri

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