Per due punti passa una sola retta

Il primo pensiero fu di essere in ritardo: troppo intensa la luce che filtrava dalla tapparella. Perché Marta non mi ha svegliato? fu il secondo. Solo quando scese dal letto si accorse delle scarpe ai piedi, non le solite da ginnastica con cui andava al lavoro. Devo essermi addormentato vestito pensò. Poi fece un respiro profondo, cercando di ricordare qualcosa della sera prima, e solo allora portò la mano al collo. Una cravatta? si chiese, mentre allentava il nodo. Da quanto tempo non ne indossava una. Lì per lì gli venne da sorridere, ma fu un attimo. Guardò la sveglia sul comodino, quella nuova che gli aveva regalato il figlio per il compleanno. Possibile che si fosse dimenticato di programmarla? Mai una volta in tutta la sua vita era arrivato in ritardo al lavoro, e non sarebbe successo nemmeno quella mattina! Senza alzare la tapparella si precipitò fuori dalla stanza, cercando di abituarsi alle scarpe che, oltre a stringere troppo i piedi, lo facevano scivolare sul parquet. Era arrivato alla porta, dietro la quale sentiva scorrere l’acqua della doccia, quando ricordandosi di essere in ritardo cambiò idea e disse solo «Marta scappo, ci sentiamo più tardi». Poi scese le scale due alla volta e, richiuso il portone alle sue spalle, si mise a correre.

Non se ne accorse subito, ormai la vista era quella che era. Solo quando fu a una decina di metri dal negozio riuscì a leggere il cartello affisso alla saracinesca: CHIUSO. Si fermò, passando una mano sulla fronte per poi asciugarsela sui pantaloni, e rimase lì a leggere più volte la stessa parola, come se fosse straniera e si sforzasse di tradurla. Quando vide il suo amico Franco uscire dalla tabaccheria istintivamente si girò dall’altra parte, per tornare da dove era venuto. Ci vollero una ventina di passi perché si rendesse conto che si vergognava. Sognare, non stava sognando. CHIUSO? Chi poteva averlo messo se non lui. Possibile che avesse deciso di prendersi una giornata libera e non lo ricordasse? Forse se avesse aspettato un po’, se si fosse calmato, la memoria sarebbe ritornata. Ma intanto, che fare? Tornare a casa no, non voleva far preoccupare Marta. Sedersi e aspettare, ecco cosa avrebbe fatto. E visto che stava attraversando il parco, quando fu davanti a una panchina libera, si lasciò andare.

Trascorse il tempo così, fissando un punto davanti a sé ma senza vederlo, rovistando dentro a quella soffitta polverosa che fino al giorno prima era sempre stato un luogo ben illuminato e in ordine, come la corsia di un supermercato. Poi di colpo scattò in piedi, deciso infine a rincasare. Mentre camminava una strana sensazione prese il sopravvento. Nonostante i pensieri lo appesantissero, il suo corpo si faceva, in qualche modo, sempre più leggero. All’inizio pensò fossero le scarpe di cuoio, poi si rese conto che quando riappoggiava i piedi questi non finivano a terra, ma a pochi centimetri di distanza. «Sto diventando matto» furono le parole che scivolarono dalla sua bocca, mentre accelerava il passo per uscire dal parco. Fu in quel momento che vide Andrea. Lo riconobbe subito ma si andò comunque a nascondere dietro a un albero, non essendo ormai più sicuro di niente. Sì, era proprio lui. Lo stava per chiamare ma si fermò, il nome gli rimase letteralmente in gola. Piangeva. Suo figlio stava piangendo. All’inizio era stata solo un’impressione ma adesso ne era certo. Da dietro il muretto spuntò il viso di Patrizia che si fece avanti per abbracciarlo. Perché piange? Un litigio tra innamorati, quasi sicuramente. Ma poteva anche darsi che sapesse qualcosa di cui era stato volutamente tenuto all’oscuro. Oppure di cui anche lui era a conoscenza, ma che aveva dimenticato. Tutti questi pensieri che continuavano a planare sfiorandosi l’un l’altro, prima di appollaiarsi sulla sua testa, se ne volarono via non appena sbatté la nuca contro un ramo. Come fosse possibile, visto che era fermo, gli fu chiaro quando, abbassando lo sguardo, vide che era sospeso letteralmente in aria. E continuava a salire. Era talmente preso a schivare i rami da non avere nemmeno il tempo di pensare. Solo quando fu sopra l’albero, guardò nuovamente in direzione di Andrea che ormai si allontanava tenendo per mano la ragazza, mentre diventavano sempre più piccoli. Preso dal panico si mise a testa in giù e cominciò a scalciare, come se suo figlio fosse qualcosa da ripescare sul fondo di una piscina. Ma continuava a salire.

Dopo un po’ smise di dimenarsi, non tanto per rassegnazione, ma perché rapito da quello spettacolo: il Municipio dove aveva lavorato suo padre; l’ospedale in cui era nato il figlio, e dove aveva trascorso le prime tre notti accanto alla sua incubatrice; l’autostrada che portava al mare e che così tante volte avevano percorso tutti e tre insieme quando ancora aveva il camper; le colline, e poi dietro il bosco di castagni, dove una volta era riuscito a convincere Marta a fare l’amore. Mentre continuava a salire sempre più rapidamente la città perdeva i contorni, fino a quando, ormai lontano nello spazio e nel tempo, allungò una mano nell’ultimo tentativo di aggrapparsi. Un attimo prima di sparire.

Un racconto di Daniele Israelachvili

Illustrazione di Ninna

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