Suole di cuoio, suole di gomma

Il bambino dorme. Emette aliti corti, secchi. Apre gli occhi di colpo, vede l’ora, sei e cinquantanove, allunga la mano e spegne la suoneria, appena prima che scatti. Sospira e si mette seduto, con cautela. Guarda l’interruttore della luce e pensa – ma solo per un istante – di accenderla. Ci hai provato in passato, si dice, hai schiacciato la leva in plastica con un dito, mentre con l’altra tenevi premuto dall’altra parte, per contrappeso, per non far scattare la molla di colpo, quella che diffonde per le stanze quel rumore secco, fastidioso. Ti sei allenato di giorno, molte volte, quando il rumore copriva gli insuccessi. Ti riusciva anche bene. Ma farlo appena sveglio, con le dita fredde, essere sicuro di scattare in silenzio, ogni volta… quello era troppo. E così li hai svegliati, una mattina. E non è stato bello.

Il bambino si veste in silenzio, scende le scale, sciacqua faccia, nuca, denti, l’acqua è fredda, non si accende la caldaia in autunno, non ancora. Fuori il cielo è blu scuro. Ho preso tutto? si chiede il bambino. Aveva preparato la borsa di sera, perché sa che non deve scordarsi nulla, non può. Aveva sistemato i quaderni sul comodino, poi i libri, e l’astuccio, aveva controllato bene. Sì, ho tutto, si era detto. Oggi andrà bene.

Apre la dispensa e vede un sacchetto di biscotti. Chiuso male. La carta spessa, arricciata e schiacciata, sembra reduce da un pugno; ci sono aperture ovunque, passa l’aria e ci passa perfino la sua mano. La infila. Trova alcuni frammenti di biscotto, sul fondo, li recupera e li porta alla bocca. Sono stopposi, fangosi, li mastica e si sfaldano. Esce. Almeno fuori trovi uno spettacolo meraviglioso. Lucifero, la stella del mattino. Che stella non è, ma astro, l’hai letto sul libro di scienze, brilla nel cielo intenso, blu, sfarfalla. Hai provato a raccontare che distingui i pianeti dalle stelle, ne vedi la forma definita, addirittura allungata nel caso di Saturno. Nessuno ti crede e così il bambino si avvia a piedi. Cammina e in fondo alla strada Lucifero sbiadisce nell’alba che si allarga. Il bambino continua a camminare, fino alla fermata dell’autobus.

Il portone della scuola in vetro, aperto; le suore in fondo, il corridoio lungo. Non entri, esiti, ti volti e c’è una piazza, ampia, alberi e una strada, che si allontana. Non fantastichi neppure di poterla imboccare, di fuggire verso i campi incolti. Invece ti dirigi verso il corridoio ed entri.

Il bambino prepara i regoli colorati per la prima ora. Matematica. Il quaderno a quadretti, grossi, il libro ricoperto di cellophane verde opaco. La maestra inizia. A cosa diavolo serviranno questi regoli? Il bianco è uno. Dice la maestra. Il rosso è due. Il giallo è cinque. Maledizione. Il cinque è il mio numero preferito e gli hanno dato il giallo, che è un colore che odio. Non poteva essere blu, il cinque? Ti sei ricordato di portare tutto, la maestra sorride. Bene. Un’ora scivola serena.

Hai storia adesso. Il quaderno a righe, doppie, e il libro ricoperto di plastica trasparente. Hai anche una penna. Che non sia di quelle cancellabili! Così aveva detto la maestra. La tua non è di quelle cancellabili. Controlli ogni volta, che non si cancelli. Ne sei sicuro, non si cancella, non dovrebbe almeno. Ma controlli lo stesso. Bene, ho tutto anche per storia, meno male. Che poi la storia non mi piace un granché, però è anche interessante. I sumeri preparavano le piadine. Sono buone le piadine. Vivevano in case di fango e non avevano niente: né elettricità, né auto, né radio. Nulla. Ma preparavano le piadine su pezzi di pietra rovente. Chissà se erano buone, quelle piadine.

Geometria passa liscia. Il bambino ha il righello, matita, compasso, squadrette, gomma, e il quaderno a quadretti, piccoli. Disegna trapezi scaleni e triangoli ottusangoli e perfino un esagono regolare. Bene. Mancano solo le due ore di italiano, e avrò finito. Ho il libro e il sussidiario , il quaderno a righe e ho controllato, la biro non si cancella, e ho portato anche la penna stilografica, per il dettato. Così, quando finisce geometria, chiedi di andare in bagno e vogliono sapere se devi farla grossa o piccola. Piccola. Così arrivi in fondo al corridoio e riesci a liberarti. Torni, pronto alle due ore di italiano, ma nessuno sta mettendo quaderni o penne sul banco. Si muovono verso la porta. Dove vanno? Dove diavolo andate? Ma non ti ricordi? È il secondo venerdì del mese. Abbiamo ginnastica. Ginnastica? Non ho portato la tuta. Poco male. Posso correre anche con i pantaloni di flanella, e la camicia. Ma le scarpe no. Non si possono usare suole di cuoio, in palestra. Rovinano il fondo, dice il maestro. E le scarpe da ginnastica non le ho. Ho il sussidiario di italiano, quello sì, ma italiano non c’è.

Gli scolari intanto si muovono lenti, ma ordinati, imboccano le scale, e il bambino è in mezzo a loro, assente. Pensa alle possibilità. Fingersi malato. Ma poi dovrebbe affrontare quello che lo aspetta, a casa. Fuggire, dal corridoio, attraverso il portone di vetro e poi oltre la piazza, verso i campi, il canale, i fossi e i pioppeti? La porta, di certo, sarà chiusa. Ha già provato a chiedere al maestro di essere clemente, una dimenticanza può accadere. Anche se, fra tutti i bambini, le scarpe le dimentica solo lui, o meglio, solo lui dimentica quelle con la suola in gomma. Tutti gli altri le hanno già ai piedi, le suole in gomma. Lui invece deve indossarle in cuoio, ortopediche, dicono, anche se non ne capisce il perché, non ha i piedi storti. Ma intanto la colonna di alunni è giunta in palestra, che altro non è che un’aula più grande delle altre, senza banchi, i banchi sono stati ammonticchiati in uno sgabuzzino, assieme alle sedie e alla lavagna. Guardi il maestro e lui ha già capito. È infuriato. Rosso in viso e col dito puntato, verso lo sgabuzzino, che ti fa capire come sta per finire. Come è già finita. Quindi posi la borsa ed entri. E non accendere la luce, dice, che la vedo da sotto la porta. Poi chiude. E intanto i bambini corrono, sul pavimento liscio dell’aula, senti il rumore della gomma che stride, fischi brevi e secchi. La vista pian piano si abitua. Seduto a terra, schiena contro il muro, vedi il profilo di montagne di banchi. Dalla tapparella chiusa filtra un punto luminoso, come un astro del mattino. Ma non è Lucifero, che ormai dorme, è solo un pezzetto di sole. Guardi l’interruttore e pensi che forse potresti accenderlo, senza far rumore, ma tanto non lo farai. E non perché te l’hanno vietato. È che sto bene al buio. Ormai sono abituato.

Un racconto di Michele Frisia

Illustrazione di Ilaria Salvatori

Michele Frisia

Michele da piccolo voleva fare il benzinaio. Non c’è riuscito e così s’è laureato in fisica teorica, ha fatto l’investigatore per la polizia e poi il perito balistico. Scriveva racconti noir e sceneggiature, ma ha smesso perché non gli piaceva. Ora scrive altro.

Lascia un commento