Daniele Mollica

Doping of the future

Dopo le gare gli piaceva prenderla prima che lei si lavasse. Aspettava il suo ritorno alla finestra e, appena la scorgeva in lontananza, la guardava arrivare stravolta dalla fatica, pregustando il momento in cui l’avrebbe rovesciata sul letto per accarezzare la pelle farinosa di polvere e odorosa di strada. Più in alto si classificava, più lui si sentiva appagato nell’unirsi a lei. 

La doppia maratona era l’evento più impegnativo della stagione: se si fosse piazzata tra i primi tre, avrebbe potuto ambire a un posto da allenatrice o addirittura da dirigente della società. Lui capì che la gara era andata bene dal modo in cui lei l’aveva salutato con la mano da lontano. La osservò avvicinarsi a casa con uno slancio di gambe insolito dopo una corsa simile, e un sorriso vagamente imbarazzato. 

Appena fu entrata, la abbracciò e affondò il viso tra i suoi capelli, che profumavano di vento caldo e asfalto. Con i palmi delle mani percorse la schiena, che palpitava al suo tocco, e poi strofinò le dita tra loro per sentire la consistenza dello strato di sudore.

“Come è andata?” chiese.

“Ho vinto.”

Lui urlò dalla gioia e la sollevò in alto facendola roteare al centro del soggiorno prima di imboccare la porta della camera da letto. Era così felice! Ma la sentiva rigida tra le sue braccia, come se non avesse voglia di festeggiare come al solito.

“C’è qualcosa che non va?” le chiese posandola a sedere sul letto.

“Devo farti vedere una cosa.”

Negli ultimi tempi il suo corpo aveva iniziato a non rispondere più come una volta. Sentiva le ginocchia dure, i piedi anchilosati e un fastidio alla spalla destra che le impediva di darsi la spinta di un tempo. Nelle ultime due competizioni era arrivata decima, troppo poco per soddisfare la propria ambizione e gli appetiti del suo uomo.

Decise di parlarne con l’allenatore, famoso per avere vinto, nel corso dei decenni, una medaglia in ciascuna disciplina olimpica. Andò a trovarlo a casa sua, una villa lussuosa costruita lontano dalle piste.

“Non voglio un cambiamento negli allenamenti” disse, “ma una svolta radicale.” 

L’allenatore la fissò: “Arriva un momento in cui si può abbandonare. Non credi di avere vinto abbastanza?”.

“Se non mi aiuti tu, troverò qualcun altro.” Si alzò e si avviò alla porta.

“Va bene, andiamo.”

Le fece strada nel sotterraneo della villa, a cui si arrivava con un ascensore interno. Lei non c’era mai stata prima, ma ne aveva sentito parlare da alcuni compagni di squadra, che, una volta interpellati, avevano dato risposte evasive.

L’allenatore la condusse in una stanza senza finestre e con il soffitto basso, al centro una poltrona di pelle. La luce, generata da un neon che correva lungo le pareti, era accecante. 

Lei si sedette sulla poltrona, investita da un’improvvisa stanchezza, e guardò l’allenatore armeggiare a un tavolo dove erano disposti sette flaconcini identici e una siringa con un lungo ago ricurvo.

“Dovrò farti l’iniezione alla base del collo” disse l’allenatore mentre aspirava la stessa quantità di liquido da ogni recipiente. “All’inizio sentirai un formicolio in tutto il corpo, poi un fortissimo bruciore, ma resisterai.”

Lei ascoltava tenendo gli occhi chiusi, abbagliata dalla luce della stanza, che le sembrava fosse più intensa da quando erano entrati. 

“Ti avviso: potrebbe avere degli effetti collaterali” disse lui, “sei ancora in tempo per cambiare idea.”

“Quali effetti?” chiese lei socchiudendo gli occhi per cercare quelli dell’allenatore. Ma lui le dava le spalle.

“Dipende dal fisico. Alcuni atleti diventano semplicemente imbattibili, altri lo diventano al prezzo di una mutazione del proprio corpo, ad esempio un cambio nel colore dei capelli o nella voce.”

Lei rifletté un attimo e sorrise: “Ho sempre sognato di essere bionda: procedi”.

L’allenatore si voltò verso di lei reggendo la siringa piena di un liquido bluastro e, mentre un sibilo si diffondeva nella stanza, inserì l’ago con uno scatto del polso.

Lei sentì uno strano torpore impadronirsi delle mani e dei piedi e poi diffondersi in tutto il corpo. All’improvviso avvertì un fuoco accendersi nell’addome, come se della benzina si fosse infiammata e la stesse bruciando dall’interno. Il calore si concentrò in basso e le venne voglia di spingere, come se avesse dovuto partorire.

Lui non l’aveva mai vista così: era ancora lucida di sudore come durante la corsa e questo la rendeva più profumata e desiderabile. Si avvicinò per baciarla, ma lei si spostò bruscamente. “Aspetta, ti ho detto.” Afferrò la mano di lui, scostò l’elastico dei pantaloncini e se la infilò nelle mutande. 

Lui trasalì e ritirò la mano come se avesse sfiorato una tagliola. “Che cos’è?”

“È proprio quello che pensi” rispose lei senza riuscire a guardarlo negli occhi. “Volevi che vincessi per eccitarti di più, e ho vinto. Ma c’è stato un imprevisto.”

“È definitivo?” chiese lui.

“Non si può sapere.”

Lui sospirò, si inginocchiò davanti a lei e le appoggiò una mano tra le gambe. Intanto guardava i capelli appiccicati alla fronte, la maglietta bagnata e tesa sui capezzoli. Lei lo fissava e gli accarezzava la testa, mentre sentiva il calore della sua mano invaderle il corpo.

Lui le sfilò lentamente i pantaloncini, dandosi il tempo di prepararsi alla sorpresa. Lei trattenne il fiato. “Ti piace?”

“L’importante è che tu abbia vinto” e aspirò l’odore del corpo di lei che impregnava l’aria.

Un racconto di Deborah Foss

Illustrazione di Daniele Mollica

Lascia un commento