Mirtilli

L’alleanza

Cammino spesso sulla spiaggia, soprattutto al tramonto, senza stancarmi mai dei bambini che schiamazzano e delle donne dall’eleganza magnifica che si avviano a pescare tra i coralli ruvidi durante la bassa marea. Ogni tanto qualcuna di loro mi sorride da lontano, nascondendo la bocca dietro il velo di un colore vivo rischiarato in controluce dal sole. Ho imparato a indossare un nuovo abito nel rapporto con gli altri, a comprendere che una distanza muta tra me e loro può essere irrilevante anche a cento metri.

La mia vita è semplice e si compie tra le case basse dei locali e degli espatriati in cerca del loro paradiso, le feste e le cerimonie discrete sulla spiaggia, le canzoni fuori moda e i giovani dai lunghi capelli salati. Nel villaggio mi hanno accolta un po’ come una sorella maggiore, o forse come una zia o una figlia approdata per caso lì dopo un naufragio. Adesso amo anche la pioggia che qui si alterna nelle stagioni: originata dal mare e dai suoi rimescolamenti, le riconosco un valore e l’accolgo in amicizia. Prima mi ribellavo al suo esistere perché si frapponeva a qualche urgente obiettivo delle mie ostinate giornate affogate di scadenze.

E poi c’è Daniel. Da pochi mesi viviamo a casa mia, tra i mobili di giunco, i teli di batik e le ciotole di legno. La sera ci sediamo in veranda e ascoltiamo le onde nel buio perfetto, per non attirare le falene che mi spaventano. Daniel vorrebbe una bambina, dice che sarebbe meravigliosa, soprattutto se ereditasse i miei capelli. Io sorrido guardando il bianco delle onde, sapendolo al mio fianco. Quello è un sogno che ho già rincorso, con Mario, negli anni della reciproca sconoscenza, quando credevamo di sapere chi fossimo e dove stessimo andando insieme. Nulla ha mai attecchito nel mio ventre e, all’ennesimo ripetersi del mio ciclo, ero arrivata a maledire la luna. Guardo i bambini e le bambine del villaggio imparare a rispettare gli animali che un giorno pescheranno nel blu o raccoglieranno tra la trasparenza di un’acqua di riva, e questo mi basta.

Ogni tanto sento il bisogno di stare da sola, sotto l’azzurro di una luce pura, senza tempeste all’orizzonte, e di immergermi nel mare di cristallo che volge con la distanza all’acquamarina e al cobalto, oppure di camminare sui resti delle conchiglie di madreperla e sugli scheletri dei coralli che frusciano senza rotondità, spigolosi eppure impalpabili. Percepisco il mio procedere finalmente verso qualcosa, la cui definizione non ha più nessuna importanza, mentre il vento sottile mi stempera la pelle troppo calda, perché sa di cosa ho bisogno.

Non ho più un centro a cui tornare, non ho più bisogno di alcun centro; mentre cammino assorta mi accorgo che qualche bambino e qualche bambina del villaggio compiono un tratto del percorso con me, e allora ci sorridiamo con occhi complici. Quindi mi mostrano una conchiglia ramificata e traslucida con un secondo fine: il loro tesoro in cambio di un tocco leggero al mio delfino tatuato sulla caviglia. Lo osservano con gravità, sembrano chiedersi se l’ho rubato al mare. Poi mi toccano i capelli stranieri e mi perdonano con le bocche sdentate. Io li ringrazio piegando la testa di lato, un’onda sulle labbra, fino al prossimo incontro.

Ci hanno mandato a chiamare qualche sera fa perché noi abbiamo scorte di medicine che valgono come una buona magia. Hanno chiesto di me, perché la cura appartiene alle donne; eppure le conseguenze di un incidente qui assumono un’importanza collettiva cui ciascuno contribuisce come può. Gli incontri con il corallo affilato, o con il pesce di pietra all’agguato sul fondo, sono rischi cui si fa l’abitudine, come con gli ubriachi al volante, o i disperati in armi dagli occhi di faina propri di altre latitudini. L’indomani mattina sulla soglia della nostra veranda era stata lasciata una cesta di pesce.

In tutte le civiltà che guardano al mare i miti emergono dalla schiuma, dagli abissi neri e irraggiungibili, dal rapporto con le creature che lo abitano. Molte storie riguardano i pescatori, come è naturale, ma c’è un territorio del mito che è delle donne e ci parla del loro potere di incantare lo squalo, di danzare con il delfino e di comprendere il polpo. Per queste persone tutte le storie che si narrano hanno lo stesso diritto e la stessa importanza, che si tratti dell’abilità del pescatore di uccidere e sfamare o dell’abilità della donna di percepire i nessi e quindi allearsi con tutti gli esseri. Essere parte di questo mi fa sentire finalmente vicina al senso del vivere.

Daniel ha cucinato il pesce, è diventato bravissimo. Lo ha condiviso con la famiglia del pescatore ferito. Il figlio è venuto a darci notizie, a dirci che andava tutto bene. L’uomo non prenderà il largo per almeno una settimana e il ragazzo è ancora troppo giovane per prendere il mare. Non è voluto entrare, guardava la nostra casa dalla soglia come a scoprire un mistero più lontano del fondo del mare. Forse è rimasto deluso dal nostro ordinario ambiente domestico, per nulla esotico; ha semplicemente accettato il cibo e salutato sottovoce.

Il mio vuoto è colmato, le ribellioni sedate. Lo sguardo accoglie il mistero oltre le onde, il respiro vive calmo nelle notti accanto a Daniel, e le albe si susseguono al fremito che mi provoca inebriarmi dell’odore di frangipane, mentre lo raggiungo in veranda a godermi ogni nuovo giorno. All’asservimento ai ricordi preferirò il silenzio di un sorriso.

Un racconto di Monica Pace

Illustrazione di Mirtilli

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