Daniele Mollica

Mia

Sono le otto di sera e Alina dà la pappa a Mia. Non le ho mai parlato, eppure sento che questo è il suo nome. Dalla voce non è italiana, parla sempre con la gatta, solo con lei. Prima della pandemia stava di rado a casa, appena tornava dal lavoro dava da mangiare alla gatta, poi svaniva nell’altra stanza e dopo un po’ riappariva in cucina, mezza nuda. Ora non esce più e indossa il pigiama. La sua pelle è talmente chiara da sembrare un’ostia, gli occhi sono frammenti di cielo fissi sui mobili che continua a pulire, quasi voglia annientare una colpa, ma appena Mia le si struscia contro un piede torna a sorridere, l’afferra per le zampe e balla con lei, ignorando le risate sguaiate e le canzoni neomelodiche provenienti dal vicolo. Come al solito dura poco: spariscono nell’altra camera, le luci si spengono e io resto solo, al buio, la fronte schiacciata sul vetro della portafinestra.

Ormai si può uscire sempre meno, i contagi sono aumentati. Qui ho tutto ciò che serve. Agguattato dietro la tenda, fumo una sigaretta e porto una bottiglia di vino alla bocca, spiando Alina che pulisce la cucina: la sua pelle è ridotta a una velina e gli occhi di un azzurro smunto, ogni volta che Mia le sfiora un polpaccio lei fatica a sorridere.

Dal vicolo giungono canti e risate, ieri sono esplosi in cielo dei fuochi d’artificio ma lei non li ha neanche visti: sfregava con forza i fornelli e dopo un po’ è svanita nella stanza da letto assieme a Mia.

In serata Alina ha guardato il mio appartamento. Appiattito contro una parete, la sentivo frugare nell’oscurità in cerca di me.

Quando ho spinto la testa oltre al muro, la cucina era buia. 

A un tratto decine di luci hanno rischiarato il vicolo, dai balconi echeggiavano canti, risate e applausi, donne e bimbe agitavano al cielo cellulari e candele.

Ho visto il braccio di Alina guizzare dalla porta della cucina, in mano stringeva una candela, ma subito quella luce è svanita e il vicolo è tornato buio. 

Mi è parso di vedere i suoi occhi: erano arrossati, il volto livido.

Da giorni non vedo Alina, in strada non si sente più cantare, dicono che i morti sono aumentati. 

Ho pensato tutta la notte di scriverle una lettera, cadenzando il tempo con sigarette e vino. Forse dovrei chiederle di andare via insieme, noi due e Mia.

Solo ora mi rendo conto che non andavo sul terrazzo da quando l’ho incontrata. È strano avvertire il vento sulla pelle, è strano sentirla, la pelle. La brezza notturna scorre sul braccio che fende l’aria, poi un piccolo tonfo.

Quando riapro le palpebre, la palla di carta è ai piedi della portafinestra di Alina.

A svegliarmi sono state le sirene delle ambulanze, in strada si udivano urla e imprecazioni.

Mi sono avventato sulla porta del balcone, ma sono arretrato all’istante: le imposte della portafinestra di Alina erano chiuse, lei stava inginocchio, le dita strette alle imposte e gli occhi tremuli su di me.

Con un palmo ha picchiato contro i battenti e poi è svanita.

Ormai vedo Alina solo dai miseri spiragli della persiana, piccole parti di lei che non riesco ad afferrare. Sta sempre al buio, prende il cibo per Mia e si trascina nell’altra stanza, dove non posso raggiungerla. 

A volte scorgo i suoi occhi fissarmi prima che sparisca, sempre più pallidi, quasi stiano svanendo.

Ho deciso di tenere la luce accesa. Voglio che mi veda, che capisca. 

Ho passato la notte sul terrazzo, in strada sfrecciano ambulanze e auto della polizia, nessuno fa festa sui balconi, tutto è svanito con lei.

All’alba vengo svegliato da uno strano rantolo, nella cucina di Alina si aggira Mia, non la smette di miagolare, ma lei non c’è.

Mi precipito in strada, gli edifici sembrano abbandonati da decenni, la città è immersa nella nebbia. Corro nel palazzo di Alina e salgo in fretta le scale, quando arrivo sul pianerottolo mi guardo attorno in cerca del suo profumo, ma sento solo il miagolio di Mia dietro una porta.

Con una spallata la butto giù e mi fiondo nell’appartamento. C’è odore di fiori, sembra di stare in un cimitero, le pareti sono lapidi tappezzate da vecchie foto di famiglia. 

Giunto in cucina ho la sensazione di trovarmi sulla scena di un delitto, i mobili che conosco a memoria sono coperti di polvere. Mia si struscia ai miei piedi e miagola, poi guizza nel corridoio e la inseguo in un’altra stanza.

Gli armadi sono aperti e i vestiti gettati in una valigia, alle pareti ci sono le foto di una bambina dai capelli biondi e gli occhi azzurri, sulla scrivania bollette e banconote sgualcite.

Accarezzo il letto, il profumo di Alina mi entra nelle vene, ma all’improvviso alle mie spalle sento un fruscio, mi volto di scatto e la vedo rannicchiata in un angolo, avvolta in una coperta, gli occhi gonfi di terrore e un coltello stretto tra le mani.

«Alina…»

Faccio appena un passo, lei serra le palpebre e mi agita contro il coltello.

«Alina, mi prenderò io cura di…»

Si fionda tra le mie braccia, sorrido. Avverto un crampo lancinante alla pancia, le gambe diventano deboli, sento in bocca il sapore del sangue e vedo il viso di Alina così vicino, le sue labbra a un soffio dalle mie.

Cerco di accarezzarla, ma cado in ginocchio. 

Alina mi fissa, la gatta miagola disperata.

Muovo appena le labbra, vorrei dirle che le porterò via con me e non saremo più soli, ma la figura di Alina diventa sempre più sbiadita, non riesco ad afferrarla. Sento solo un pesante tonfo, poi il miagolio di Mia e le sirene delle ambulanze. 

Un racconto di Marco Peluso

Illustrazione di Daniele Mollica

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