Il fenomeno Dalloway

Lo conoscevamo dai tempi dell’asilo, eppure nessuno di noi, oggi come all’epoca, saprebbe restituirvi un’immagine fedele – anche solo a parole – di Donny Dalloway. Tanto per cominciare non riusciremmo a descriverne la faccia; e non perché non si mostrasse mai di persona – anzi –, ma perché ogni volta in cui si ripresentava assumeva una fisionomia diversa dalla precedente.  E non era solo il volto a trasfigurarsi: l’intero quadro si riassettava a intervalli sregolati, quando a distanza di ore e quando di pochi minuti. Di concreto non avevamo nulla a cui aggrapparci per riconoscerlo, neanche un misero neo. Cambiava più facilmente anatomia, voglie, cicatrici e lineamenti che vestiti. Persino il sesso  la voce, il passo, il carattere e pure l’intensità dell’ombra non erano mai i medesimi. Era una forma amorfa, un’idea buia. Niente di Donny Dalloway sopravviveva in Donny Dalloway a parte il nome Donny Dalloway. 

Eppure lo riconoscevamo sempre. 

Eccolo, il paradosso, il cosiddetto «Fenomeno Dalloway»: Donny cambiava di continuo, tanto nel corpo quanto nella mente, ma restava inconfondibile. Era sufficiente incontrarlo una volta, da allora lo riconoscevi in automatico, come se la giusta prossimità ti avesse conferito una sorta di sesto senso, un radar  per individuare con esattezza una singola persona, persona che era al contempo tutte, qualsiasi, alcune e nessuna. Insomma, lo guardavi e non potevi non saperlo, di essere al cospetto del grande Donny Dalloway. 

Lo disse bene un nostro vecchio compagno delle elementari (non ricordo quale, purtroppo): «Donny Dalloway era una di quelle cose che sono quelle cose per forza, come il sole, il colore rosso, i lavandini e le parole». Molti concordarono. Eravamo di nuovo tutti insieme, avevamo trent’anni. Ci eravamo riuniti appositamente per parlare di lui. Il suo ricordo ci ossessionava. Dovevamo esorcizzarlo.   Qualcuno proponeva di farne una specie di biografia, di ispezionare il perimetro dei nostri ricordi intorno a quella terra di nessuno che era stata l’infanzia di Donny Dalloway, così da tracciarvi una linea – una linea minuziosa e al contempo universale – e ritrarlo una volta per tutte. Qualcun altro ancora replicò che avevamo già fatto abbastanza «quella volta». Quel qualcun altro si riferiva al giorno del cimitero. 

Non che prima di allora percepissimo questo suo – chiamiamolo così – potere come un miracolo, a meno che i miracoli non siano anche composti, almeno per metà, se non due terzi, di terrore. C’era sempre stata una sorta di timore reverenziale che ci impediva di parlare approfonditamente di Donny; io però direi che, a censurare ogni dubbio, era qualcosa di ancora più macabro – ma a dire certe cose a posteriori sono bravi tutti. Insomma, in vita, il potere di Donny era una specie di tabù, ma non ci inquietava.

È nell’istante in cui morì che le cose cominciarono a cambiare.

Non ero tra i presenti, me l’hanno raccontato così tante volte così tante persone. Fatto sta che pioveva a dirotto e che Donny – undici anni e tre giorni – attraversava la strada sommerso fino alle caviglie. L’acqua era ovunque e un fulmine colpì l’acqua e la morte si irradiò tra mille cerchi concentrici. il bambino perì all’istante e nessuno, nella folla che si radunò, in funzione d’aiuto e in principio di lutto, poté far niente a parte adagiarlo sul marciapiede , chiamare i soccorsi e intanto constatarne l’assenza di battito. a un certo punto la pioggia cessò di colpo e il terrore prese a dilagare. Perché il Fenomeno non si era arrestato neanche con la morte di Donny Dalloway, ma anzi si era, come dire?, amplificato, evoluto. 

Adesso ognuno dei soccorritori, se guardava quel cadavere, vedeva Donny trasfigurato in un corpo e una faccia diversi da quelli che vedevano gli altri. E pur essendo il cadavere sempre differente nella simultaneità degli sguardi, era ovvio quale riflesso di quella sagoma inanimata albergasse nei loro occhi. Tuttavia nessuno, in lacrime, il volto che vide, lo volle descrivere.

Quel giorno la polizia telefonò a casa Dalloway per dare la triste notizia e nessuno rispose. Suonarono alla porta, nessuno aprì. Sfondarono la porta, la casa era vuota.

Il funerale si svolse a bara chiusa. C’era molta nebbia, c’era tutto il paese, non c’erano i parenti di Donny. Piangevamo al ricordo di quel bambino multiforme come non avremmo mai fatto per un figlio o un fratello. 

Poi però, al termine della funzione, mentre qualcuno posava dei fiori, finalmente tornammo in noi. Una foschia si era diradata man mano che la vanga aveva rovesciato la terra. Aprimmo gli occhi, guardammo la tomba.

Qualcuno gridò, qualcuno scappò, qualcuno provò a sradicare la lapide. 

Vedete, su quella pietra, inizialmente, non si era saputo che foto metterci, dato che Donny era sempre diverso. Noi, che eravamo i suoi compagni di classe e i suoi amici più cari, ne avevamo raccolte quante ne possedevamo, tra scuola, compleanni e campi solari. Non potevamo riassumerlo in un’unica faccia, quindi infine le avevamo selezionate tutte: avevamo ritagliato il quadratino col suo volto da ogni foto di gruppo e incorniciato ogni quadratino in un grande collage. Il risultato, inizialmente, nessuno l’aveva notato: in quel collage c’erano tutti i presenti al funerale. Mancava solo Donny.

Un racconto di Marco Biacchessi

Illustrazione di Luca Palino

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