Bellantonio

Girolamo Bellantonio voleva fare l’attore. 

Ma aveva un grosso problema che gli tarpava le ali: era brutto. E non di una bruttezza interessante, quella, per capirci, che Sergio Leone avrebbe sublimato con un primissimo piano dei suoi. No, Bellantonio era brutto e anonimo, con il nasone adunco, le orecchie a sventola e gli occhi piegati all’ingiù, in una perenne espressione di scoramento. Quello che provava quando constatava che sì, era pure bravo – e se lo diceva il suo insegnante di recitazione, che aveva lavorato con Strehler, c’era da credergli – ma dove voleva andare con quella faccia lì?

O almeno, a questo credeva lui.

La verità era che Girolamo Bellantonio stava alla recitazione come un ubriaco al funambolismo. Anzi: se il suo curriculum non veniva cestinato, era proprio per la sua faccia. “Viso interessante sebbene non espressivo”, diceva una nota scarabocchiata da chissà chi a margine della sua scheda, “sfruttabile in occasioni che non prevedano l’apertura della bocca”. Perché al di là di un accento scolpito nella laringe e refrattario ai corsi di dizione, il Bellantonio tendeva a declamare con un’enfasi tale che, nell’unico teatro che gli concedeva di salire sul palco – un oratorio con cortiletto adibito ad auditorium per la stagione estiva – non raggiungeva solo gli spettatori delle ultime file – che comunque arrivavano a dieci: le file, non gli spettatori – ma anche gli ignari avventori del chiosco “Santa Rosalia” nella piazzetta attigua.

Purtroppo, vedendolo così appassionato, nessuno aveva mai avuto il coraggio di dirgli le cose come stavano. Finché una giovane stagista, generosa tanto nei modi quanto nella scollatura in cui Bellantonio aveva cercato rifugio in lacrime dopo un provino finito a male parole, non se l’era staccato dalle tette con un frettoloso e imbarazzato: “Forse è la faccia che ti frega”. 

Lui le aveva creduto, lei aveva potuto finire in pace la sigaretta.    

Quanto all’insegnante di recitazione, di Strehler conosceva giusto l’assonanza con xHamster, dove guardava i porno.

Dunque, Bellantonio si era convinto che la soluzione ai suoi problemi fosse la chirurgia plastica: un ritocco qua e là gli avrebbe garantito il successo che meritava. Ma con quali soldi si restaura la faccia uno che campa di sussidi e lavoro nero? 

Ed ecco che la risposta a questo interrogativo l’aveva portato dov’era ora, davanti al bancone della macelleria “Eredi Attanasio”, con le pale del ventilatore che gemevano, il frigo che ronzava e lo sguardo austero di chi, nel 1993, aveva reso i figli eredi – cadendo con la faccia nella minestra dopo un ictus – che lo guardava da una foto. Bellantonio indossava un passamontagna, impugnava una pistola e starnazzava la battuta più importante della sua vita: «Questa è un’arrrapiiina!»

Gli Attanasio erano i più ricchi del paese. Oltre alla macelleria, aperta dai tempi in cui Garibaldi sbarcò a Marsala, la famiglia aveva proprietà immobiliari, un ristorante e una farmacia. E, mentre asciugava il brodo dalla faccia del padre, il primogenito Michele già pianificava un impero di B&B e percorsi enogastronomici. Ora, trent’anni dopo, davanti all’incappucciato con la pistola spianata, era lì a dimostrare che, per fare un sacco di soldi, studiare non serve a nulla.

«Bellantò, ma che minchia fai?»

«Questa è un’arrrapiiina!»

«E secondo te i soldi li tengo in mezzo alla carne?»

Silenzio. 

Riflessione.

«Dammi quelchecc’haaai!»

«Ancora? Togliti quel cazzo di cappuccio, tanto ti si vede il naso.»

«Dammi quelchecc’hai o spaaaro!»

«Bellantò, prima togli il tappo.»

Bellantonio aveva girato l’arma verso di sé, e il tappino rosso di plastica nella canna della pistola gli era apparso come l’icona della sua inadeguatezza alla vita. Le lacrime erano scese quasi subito.

«Ma che c’hai?» Michele Attanasio era uscito da dietro il bancone e Bellantonio, sollevato il passamontagna, gli aveva raccontato tutto.

«E che c’entra che sei brutto?», aveva sentenziato. «Tu sei proprio cane.»

«Ma tu mica ci vieni a teatro.»

«Vado a bere da “Santa Rosalia”.»

Bellantonio aveva unito i puntini. Poi aveva ripreso a piangere.

«Bellantò, qua stiamo nel paese delle giustificazioni, ma un uomo deve guardare in faccia la realtà e fare quello che sa fare. Com’era la battuta di quando sei entrato?»

«Questa è una rapina.»

«Ecco, così la devi dire! Semplice, non come prima. Riprova!»

Bellantonio non capiva, ma Attanasio lo incitava. Allora aveva riabbassato il passamontagna, puntato la pistola, preso fiato e… “Questa è un’arrrapiiina!” era uscito ancora più grottesco di prima.

Lo sparo era arrivato subito dopo. Bellantonio aveva sentito un pizzico, poi la bocca gli si era riempita di sangue ed era stramazzato sul pavimento.

Angelica Attanasio aveva buttato la pistola a terra: la teneva da quando aveva deciso di cautelarsi, dopo che la sua farmacia era stata rapinata due volte nell’ultimo anno.

«Che hai fatto?», ripeteva il fratello, mentre lei si precipitava sul corpo di Bellantonio alzandogli il passamontagna.

Il poverino aveva gli occhi più incurvati e spenti del solito, sputava sangue. Ma vedendo la farmacista aveva mormorato dolcemente e senza eccessi: «O speziale veritiera! Il tuo veleno è rapido. E così con un bacio io muoio.»

Aveva cercato approvazione nello sguardo di Michele, che con un sorriso fradicio e disperato aveva risposto: «Tanto ci voleva?»

E così, davanti al suo pubblico, con la serenità di una recensione positiva, Girolamo Bellantonio aveva tirato le cuoia. 

Un racconto di Davide Cerreja Fus

Illustrazione di Gianmarco De Chiara

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