Latte al cioccolato

C’era questa donna indecifrabile, la chioma gialla e la pelle gonfia e grigia, dello stesso colore delle acque del fiume dopo un’alluvione. Ci aspettava fuori scuola e salutava con un calore sporcato di prudenza. Indossava vestiti di marca, sebbene fuori moda, molto consumati: la giacca logora ai gomiti, i pantaloni del tailleur lisi alle ginocchia. A malapena sfiorava i quarant’anni e a me sembrava una vecchia. La chiamavano “la Cuoca” perché girava voce che cucinasse bene. L’avevamo conosciuta nei campetti dell’oratorio. Non che ci importasse dei preti, un bel po’ di noi già bestemmiava a voce alta, con delizia. Ci osservava giocare a calcio, fumava sigarette e si informava su chi avesse già perso la verginità. A questa domanda anche i più audaci rabbrividivano e si facevano piccoli come pidocchi.

Io portavo i capelli lunghi e l’orecchino, a suo giudizio sarei stato il primo a scopare. A volte pensavo che la cuoca si muovesse fra di noi come un’esploratrice attenta a non contaminare un habitat centenario. In punta di piedi, fra gli adolescenti della semiperiferia.

Un giorno la Cuoca si autoinvitò a una festicciola pomeridiana organizzata a casa di un mio amico. Ci sarebbero state delle ragazze e la casa era grande con tante stanze. Disse che avrebbe portato qualcuno dei suoi famosi ingredienti. Il mio amico acconsentì.

Il sabato arrivò, plumbeo e ventoso. Una luce gialla filtrava dalla sottile coltre di nuvole del primo pomeriggio. I vini e le birre da quattro soldi erano già nei nostri sacchetti e la voglia di stordirsi saliva piano ma con regolarità. Le ragazze erano carine e ci raggiunsero con la voglia di turbarsi e inquietare. Stappammo il vino. Lo versammo in bicchieri dalle forme e dai colori diversi. Dal mio, un calice il cui stelo assomigliava al tentacolo di una medusa, bevvi con ardore. Una ragazza col fisico massiccio e il viso ordinario ebbe un conato, ma buttò giù trattenendo il respiro. Qualcuno aprì la birra. Era calda e lasciava in gola una bava viscida e zuccherina. Non importava a nessuno del sapore, importava del piacere che sarebbe salito dallo stomaco o dalla base della schiena. La ragazza più alta incominciò a masticare a vuoto. Le chiedemmo cosa facesse e rispose che l’alcol le slogava la mandibola. Ridemmo tutti. Fuori il vento era calato e la luce gialla si era fatta più rosea. La ragazza meno carina era sparita, un mio amico anche. Ridemmo ancora. Mi sedetti sul divano e prosciugai un bicchiere di quel rosso orribile. Altri al tavolo bevevano, ridevano e fumavano Diana Blu o, i più raffinati, Pall Mall senza filtro.

Suonarono alla porta.

Ci eravamo scordati della Cuoca. Quando comparve le chiedemmo se avesse trovato facilmente l’indirizzo. Annuì. Poi raccontò di aver diviso le acque come Mosè, e che il mare era arancione. La guardammo intensamente. Col motorino aveva rischiato di rimanere schiacciata fra due autobus che provenivano da direzioni opposte. Le chiedemmo se avesse portato i suoi ingredienti. Tirò fuori dalla tasca un mattoncino di pasta marrone incellofanato. Cioccolato per tutti, disse piegando le maniche della camicia. Le braccia erano bucherellate e percorse da vene azzurre, vive e pulsanti. La Cuoca staccò un pezzetto di pasta marrone come se piluccasse una torta. Lo scaldò con un accendino, lo sbriciolò e poi mischiò il tutto col tabacco. Un rettangolo di carta, una girata, una leccata e il cilindro di tabacco farcito arrivò alla bocca della donna. Ne accese un’estremità e dopo qualche secondo sbuffò una nube di fumo. Rimanemmo in silenzio, perfino le ragazze. Aspirammo tutti con eccitazione e con gratitudine. Mentre ancora eravamo in attesa che qualcosa offuscasse la nostra mente, la Cuoca aprì la porta del frigo. Se non posso farmi uno schizzetto, borbottò, almeno mi faccio del latte con cioccolato. Fece bollire il latte in un pentolino e vi sciolse un bel tocco di pasta marrone. Fece poi intiepidire il liquido, riempì una tazza e, con questa fra le mani, si sedette a una poltrona accavallando le gambe. Dopo venti minuti, iniziò a non vederci più e a muoversi male. Il latte non le aveva fatto bene. La adagiammo sul letto e le togliemmo la giacca. Dalle tasche caddero pezzi più piccoli di cioccolato e bustine trasparenti di farina e di zucchero. Spalancammo gli occhi pregustando altre vie per inebriarci. Sembrava averci visto perché ci intimò di non assumere mai zuccheri e farine raffinate, ma di esaurire tutte le nostre esperienze nella naturalezza del cioccolato. Sebbene i suoi consigli ci sfiorassero appena, non l’avevo mai vista così risoluta. Ci era sempre interessato poco della salute di quella vecchia avvelenata, ma in quel momento, distesa sul letto, paralizzata e cieca, il suo corpo ci apparve come ammantato di santità e fonte di commozione. Pensai che fosse l’effetto del cioccolato fumato. Le prime fumate, disse la Cuoca quando si riprese, sono come le prime scopate. Non si sente nulla. L’ossessione si presenta molto dopo. E delicatamente.

Un racconto di Marco Canneva

Illustrazione di Ellepi

Lascia un commento