Serena Ferri

Guardami negli occhi

Mia madre aveva labbra così sottili e bianche che quasi non si vedevano. La sua bocca era una fessura che, quando si schiudeva per urlare insulti, mostrava una voragine buia costellata da denti color avorio. Le sue labbra comparivano solo al freddo dell’inverno, quando diventavano due linee violacee che emettevano piccoli sbuffi di fumo bianco camminando per andare in chiesa: d’obbligo arrivare sempre per prima alla messa della mattina, anche a costo di aspettare fuori dal portone. Il prete, quando apriva le porte, ci salutava, invitandoci ad entrare ma guardandoci come delle pazze. Mia madre non lo vedeva, quello sguardo carico di compassione e ribrezzo. Mia madre vedeva solo quello che voleva vedere, e vedeva le mie labbra.

          Raramente mi guardava negli occhi, parlandomi. Ci provava, iniziando la frase, ma poi vedevo che le sue pupille cadevano più in basso, sulle mie labbra, che al contrario delle sue erano grandi e carnose. Forse uno scherzo della genetica, o forse mio padre le aveva così, ma io questo non potevo saperlo con certezza.

Mia madre guardava le mie labbra, parlandomi, a volte così intensamente da dimenticare quello che mi stava dicendo e lasciare le frasi a metà; quelle volte finivamo così, con le comunicazioni interrotte, i miei occhi a guardare i suoi occhi che guardavano le mie labbra.

          Mia madre non aveva lucidalabbra o rossetti. Non aveva trucchi in generale, credo li trovasse immorali o qualcosa del genere. I rossetti, poi, sarebbero stati inutili per lei. Ma anche avesse avuto labbra come le mie, sospetto non li avrebbe mai usati. Io invece li volevo. Non volevo mascara, eyeliner, fard o cipria, di tutto quello potevo anche fare a meno. Volevo il rossetto, lo volevo da quando avevo notato che mia madre non era l’unica a guardarmi le labbra. Succedeva anche a scuola: i prof, i compagni, persino qualche ragazza. Anche il prete la domenica mattina, aprendo il portone, a volte si soffermava qualche secondo in più, dicendomi qualche inezia così da avere la scusa per farlo.

          Sapevo che non avrei potuto chiederlo a mia madre, sapevo che l’avrebbe vissuta come una delusione, un’umiliazione. Ma a me piacevano quegli sguardi, ne volevo di più. Volevo che mi guardassero più a lungo. Volevo che qualcuno mi baciasse, e che lo facesse presto. Ma soprattutto, volevo che le mie labbra risplendessero, che fossero la parte migliore di me, la più importante, quella che mi distingueva.

          Un pomeriggio, dopo la scuola, rimasi in città. Entrai nei negozi che avevo sempre ammirato attraverso le vetrine. Lucia, la mia migliore amica, mi aveva detto che rubare non era così difficile, bastava farlo come una cosa qualunque, senza mostrarsi troppo ansiosi. Scelsi il negozio più frequentato, pieno di ragazze che come me erano appena uscite da scuola e curiosavano tra gli articoli. Avevo la mia giacca invernale, quella con le tasche larghe, sebbene fossimo già a fine marzo. Mi avvicinai alle ciprie, ne presi una fingendo di essere interessata e intanto gettai un’occhiata verso la cassa. La cassiera era impegnata a servire una lunga coda, aveva occhi solo per quello che le veniva messo davanti di volta in volta. Andai verso la sezione dei rossetti, optai per quelli né troppo costosi né troppo scadenti. Guardando in un’altra direzione feci un gesto rapido con il polso e ne feci scivolare uno nella tasca della mia giacca. Fatto. Non ci erano voluti più di cinque secondi.

          Di notte non riuscivo a dormire pensando al mio rossetto, e ciò mi costrinse ad alzarmi ed andare in bagno a provarlo. Stenderlo sulle mie labbra era puro godimento. Mia madre entrò nel bagno, probabilmente attirata dal rumore dei miei spostamenti, mi guardò in faccia e mi tirò uno schiaffo. Forte. Caddi a terra. La guardai e vidi nei suoi occhi lo sdegno e le lacrime.

          “Ti odio”, le dissi, scandendo bene le parole, sottolineando ogni sillaba col movimento delle labbra. Glielo dissi anche se non era vero, perché volevo farle male come lei lo aveva fatto a me, se non di più. Lei scoppiò a piangere e si mise in ginocchio di fianco a me.

          “Ti odio”, le dissi di nuovo, ma era ancora meno vero di prima. Raccolsi il rossetto, che era caduto poco lontano, e finii di mettermelo. Poi presi il viso di mia madre tra le mani mentre ancora piangeva e truccai anche lei. Era difficile, aveva labbra sottili e le lacrime sbavavano tutto. Alla fine sembrava un clown triste.

          “Sei bellissima, ora ti si vedono le labbra”, le dissi, la baciai e non la odiai più.

Un racconto di Giacomo Canton

Illustrazione di Serena Ferri

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