La curva del riso e del pianto

A sei anni volevo fare il calciatore, a dieci la rockstar e a dodici il pilota di aeroplani. Ma a quindici, niente di tutto questo: io a quindici anni volevo fare l’attore. Mi allenavo con le cassette. Imparavo a memoria le battute dei film e le ripetevo davanti al microfono del registratore. All’inizio la voce riascoltata mi sembrava orribile, ma poi ho capito che le prime volte sembra orribile a tutti e invece è solo diversa da come ce l’abbiamo in testa. Hai giusto una esse un po’ problematica, mi diceva il maestro di recitazione, ma è una esse col sibilo che fa molto indie.

Non c’erano i telefoni intelligenti di adesso, non ci facevamo i selfie e io non avevo una videocamera. Allora provavo le facce davanti allo specchio. Passavo ore dentro al bagno – mia madre chissà che pensava che facessi. Mi piazzavo lì davanti e mi squadravo. Per dritto, di sguincio, girandomi di sorpresa. Ma non cercavo le pose e i profili migliori. Io non volevo diventare un attore come quelli di Hollywood, quelli coi denti precisi e lo sguardo da figo. No. A me piacevano le facce stortignaccole del neorealismo. Quella stranita di Buster Keaton. Le risate mezze sghembe ma sincere. Mi piacevano le occhiaie e le orecchie a sventola.

La verità è che a quindici anni mi ero innamorato di Giulia e non glielo avevo detto. E sì che ne avevo avute, di occasioni. Lei a scuola mi passava davanti, si fermava a salutarmi e chiacchieravamo dei prof e delle canzoni di Sanremo. C’erano Ron e Tosca che avrebbero voluto incontrarsi cent’anni più tardi. Mi è rimasta impressa, questa cosa che parlavamo del Festival; io probabilmente lo guardavo solo per parlarne con Giulia il giorno dopo. Che poi erano tutte canzoni un po’ scialbe e mielose, e obiettivamente mentre parli di Sanremo che ci vuole a infilarci dentro una frase dolce e un Ti va se usciamo? Invece continuavo a dirle di tutto ma non che m’ero innamorato di lei. Non gliel’avevo detto a quindici anni, non gliel’avevo detto a sedici – l’anno di Annalisa Minetti – e non gliel’avevo detto a diciassette. A diciott’anni, lei si era messa con uno del Quinto Geometri.

Se l’adolescenza è il tempo delle prime volte, allora forse è anche l’unico tempo sincero della vita nostra. Il tempo in cui reagiamo a ciò che ci arriva incontro in base a come siamo per davvero. Il resto poi sarà imparare a comportarsi, cavarsela con l’esperienza, ridere per finta e mascherare il pianto con la tosse. È l’adolescenza, il tempo in cui la vita ci imprime addosso il marchio di quello che diventeremo. E il marchio che m’ero beccato io, a saperlo riconoscere, era quello di uno che voleva dire una cosa e ne diceva un’altra.

Insomma il punto è che non credo che sia un caso, se uno poi nella vita fa le cose che fa, perde i treni che perde, e a cinquant’anni suonati finisce col ritrovarsi lì davanti. Da aprile a ottobre tutti i santi giorni, l’inverno solo il fine settimana, che l’inverno fa freddo pure a Roma. Eravamo rimasti in pochi, a fare quel mestiere. I turisti c’erano sempre, ma si fermavano sempre meno, giusto qualche americano anziano e qualche giapponese ricco. Dieci euro a foto era la tariffa base, però poi succedeva che si mettevano a fare domande, io raccontavo le quattro cose che sapevo su Roma antica, sempre le stesse, e loro ne lasciavano altri dieci di mancia.

Laura l’ho conosciuta una mattina d’autunno. Non era caldissimo ma non era neanche freddo: era l’ottobrata romana. Lei stava con un gruppo di amiche; ridevano, spingevano, si spostavano, e mi scattavano le foto senza farsi accorgere. Lo facevano in tanti, per non pagare; di solito gli americani giovani. Facevano finta di inquadrare il Colosseo – un po’ più di qua, un po’ più di là – e si mettevano in modo che nella foto ci finissi dentro anch’io. Dieci euro a foto, le ho detto. Lei s’è messa a ridere: Ma perché, è tuo il Colosseo? Dieci euro a foto oppure mi inviti a pranzo, ho fatto io. Lei ha riso ancora e ha detto qualcosa di spiritoso alle amiche. Siamo andati a pranzo. Quella volta lì e poi altre venti o trenta volte. Abbiamo visto film insieme, abbiamo camminato insieme per Roma antica, abbiamo dormito insieme. Vorrei fare l’amore con te, le avevo detto la terza volta che pranzavamo. L’amore o solo sesso?, m’aveva chiesto. Forse solo sesso, avevo risposto io; il fatto è che ho una esse problematica e allora lo chiamo sempre amore.

C’è uno specchio, in un angolo di questa stanza unica di venti metri quadri che è diventata casa mia. Ogni tanto, mi piazzo lì davanti e ripenso a me quindicenne che provavo le facce del neorealismo. Mi fisso per qualche secondo. Faccio quella stranita di Buster Keaton. Poi incomincio un esercizio che m’ha insegnato il maestro di recitazione a quei tempi lì. Lo chiamava “la curva del riso e del pianto”, ed era molto serio quando lo spiegava. Passare, in poche frasi, dal ridere al piangere e poi di nuovo al ridere. Va bene qualsiasi monologo, non importa, pure quello dell’Amleto col teschio in mano. Devi lavorare sul disagio, diceva il maestro. Il disagio che sta dentro ogni risata. Lavorarlo, arrotondarlo, cacciarlo fuori. Fino a che diventa pianto. Ogni riso è capace di diventare pianto, diceva il maestro. Quando arriva il primo singhiozzo, allora devi iniziare a tornare indietro. Lo so che lì vorresti lasciarti andare e lacrimare e perderti, ma invece no. Recupera il disagio: i motivi del disagio – e falli diventare piccoli. La stanza in affitto. La divisa da centurione. Laura che dopo venti o trenta pranzi non ci siamo più visti. Gli aeroplani che alla fine non li ho guidati mai. Le canzoni di Sanremo. In ogni dolore ci sta il grottesco, diceva il maestro. Non ti preoccupare della faccia, di quello che diventa, non pensarci per niente. Se lavori bene sul disagio, alla fine della curva tiri su gli occhi e t’accorgi che sei finito dentro a una risata; magari sei provato, spossato, e completamente solo tale e quale com’eri prima, ma stai dentro a una risata, storta e sincera, di quelle che dici sempre che ti piacciono, spiegava serio il maestro.

Illustrazione di Ilaria Salvatori

Un racconto di Marco Volpe

Marco Volpe

Marco è nato a Roma e vive in Inghilterra, dove insegna e ricerca. Suoi racconti brevi sono apparsi qua e là.

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