Triangolo

Nello specchio di mamma sono come uno di quei vermetti della frutta. Da quando ho perso il sangue, non ho più una mia forma; mi allungo, mi comprimo, i contorni si sgranano, come la pelle scura sulla punta del mio seno. Mi sveglio la mattina con la paura di non riconoscermi, di non essere più in grado di unire i puntini che mi ricoprono la faccia, quelli che mamma dice di non schiacciare, perché possono lasciare le cicatrici. Non apro più l’armadio dei giocattoli, che dentro ha uno specchio con le figurine attaccate sopra. Non gioco più da quando ho iniziato ad avere paura del mio riflesso. 

«Guardati quanto sei bella e smettila di tremare».

Mamma mi tiene ancorata al pavimento di pietra per le spalle, cerca di contenere i miei spasmi. Sta arrivando dicembre, sono nuda nella sua stanza e i termosifoni sono spenti. Il mio sguardo vaga da me a lei. Mi sta sopra, come quando ci inginocchiamo tra i banchi della chiesa. I suoi capelli neri solleticano la mia schiena, il petto morbido e gonfio si alza e si abbassa contro la mia testa. I miei nuovi contorni sono la brutta copia dei suoi, una bozza di un lavoro che non puoi sapere se finirai. Avrei dovuto guardarla di più, e invece mi sono sempre limitata a sbirciarla attraverso gli spiragli delle ciglia troppo lunghe. Avrei potuto apprendere il suo corpo per osmosi, come ha detto oggi la prof in classe. E invece di osservarla, ho assorbito prima le urla di mio padre, che la picchiava e le diceva che faceva schifo. Lei al contrario non gridava mai, diceva solo che c’era la bambina di là. È andato via da solo poi, ma la sua voce mi è rimasta dentro. Mia madre non la vedo mai per davvero, il sospetto di assomigliarle mi fa fuggire gli occhi dalla sua sagoma. 

«Questo si allaccia di lato, vedi?»

Mamma è andata in giro per negozi oggi. Lavora per una signora anziana che ha tanti soldi ma che non può uscire di casa, allora le cose gliele compra lei. A volte prende qualcosa anche per sé stessa, mette da parte il resto che la signora anziana le lascia e si fa dei regali. Da quando ho perso il sangue i regali li fa a me. Prima mi ha comprato un reggiseno e adesso un bikini. Lo ha pagato pochissimo perché è inverno.

Me lo passa sotto le gambe, lo tira su fino alla peluria nera che una volta mi sono strappata via con le unghie, schifata, e stringe i laccetti sui fianchi. Il tessuto della mutandina è giallo, mi casca davanti in sottili pieghette.

«Te l’ho preso un po’ più grande, così la prossima estate ti calzerà a pennello». Lo tira su, un triangolo giallo incorniciato di nero. Sorride, mi bacia una guancia. «Ti porterò anche dall’estetista poi».

Per un istante la guardo negli occhi attraverso lo specchio. Ha la voce di me da bambina quando giocavo con le bambole. Le spogliavo, impilavo i vestiti in un angolo, le facevo tuffare nel bidet pieno d’acqua, poi le sedevo sul bordo del lavandino e parlavo con loro, dicevo che erano state più brave della loro mamma a preparare i dolcetti per la merenda.

«Questo invece è un po’ più difficile da allacciare, ora ti faccio vedere».

Mi passa davanti il pezzo di sopra del costume, lo fa come i ragazzi nei film quando regalano una collana alla loro fidanzata. Tira su due lacci lunghi e me li lega dietro la nuca. Nel nodo mi tira i capelli, mi fa male come se me li avesse strappati con una pinzetta, ma non dico niente. Non si dice mai niente quando si prova dolore. 

«Vedi? È un po’ come il reggiseno che hai adesso. Ti piace, eh?»

Mi guardo. Ci sono io, un vermetto bianco della frutta, con questi tre triangoli gialli che mi cascano addosso, due sopra e uno sotto. Sembro una pagina di un quaderno a quadretti su cui mia madre ha svolto i compiti di geometria e la mostra fiera alla maestra. Si solleva, si mette accanto a me, mi stringe con un braccio. Vorrei rubarle il calore che emana il suo corpo e invece sussurra commossa e compiaciuta che siamo simili, che sono proprio come lei alla mia età.

Allora vorrei dirle che sì, sono come lei ma che non so se sia un bene. Perché da quando ho perso il sangue i maschi mi guardano come gli uomini guardano lei e mi fanno paura perché le mani dei maschi sono grandi come quelle di papà. Vorrei dirle che il reggiseno non lo voglio mettere più, perché Luca mi ha fermata all’uscita dal bagno, ha detto che voleva vedermi le tette. Ha detto così, e la sua voce era sporca, le T e le E erano storpie nella sua gola, come qualcosa di osceno, come la voce dell’uomo che ogni tanto viene a casa la sera. È convinto che io non lo senta, chiede alla mamma che glielo prenda in bocca. 

Per la prima volta la guardo. Abbiamo le stesse lucine negli occhi, e una le cade giù dalle lunghe ciglia che ho anche io. Mi allungo, fermo la sua caduta con l’indice. 

Non far entrare più nessuno in casa, vorrei dirle, ma rimango zitta. Un brivido mi scuote da capo a piedi ed è come se anche lei mi vedesse per la prima volta. 

«Scusa, ti ho fatto prendere freddo».

Si china di nuovo su di me e mi abbraccia. Mi stringe forte e il suo calore diventa il mio. 

Un racconto di Carola Maselli

Illustrazione di Andrea Scafi

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