Leggera

Eleonora viveva in un mondo pesante.

Pesanti erano le nuvole che d’inverno schiacciavano il paese e la nebbia che inghiottiva le cose. Pesante l’afa d’estate che soffocava la gente.

Anche le persone attorno a lei erano pesanti.

I pugni con cui suo padre picchiava sua madre cadevano con tonfi sordi, come sassi nell’acqua.

Gli sguardi dei vicini li inseguivano, pressanti, quando uscivano di casa. Ma i silenzi con cui giudicavano senza dare aiuto erano ancora più pesanti.

A scuola le cose non andavano meglio.

Le parole scritte sui libri si ingarbugliavano nel cervello di Eleonora, i numeri si scambiavano di posto davanti ai suoi occhi. Lei cercava di inseguirli, di sbrogliarli, di comprenderli, ma loro non ubbidivano mai. I professori tracciavano spessi segni rossi sui compiti e la sgridavano con toni di voce anch’essi pesanti.

I compagni la chiamavano stupida, calcando con cattiveria su quella t e su quella p, come se le sputassero addosso. E lei tornava a casa ogni giorno più stanca.

Anche Eleonora era pesante.

Perché quando aveva paura le veniva fame. Anche quando era triste le veniva fame. E allora scappava in cucina e mangiava di tutto. Mortadella e patatine, cioccolato e biscotti, pane, panna e pasta fredda avanzata la sera prima.

L’unica cosa che non toccava erano le birre di suo padre; perché Eleonora sapeva che se le avesse bevute, o nascoste, poi lui avrebbe picchiato sua madre più forte.

Un pomeriggio, davanti alla porta di casa, sentì le grida prima ancora di aprirla, fece un passo indietro, si voltò e camminò fino in fondo alla strada. Ma anche da quella distanza le urla risuonavano nelle sue orecchie, così scappò nella strada dopo. E poi in quella dopo ancora.

Arrivò alla fine del paese e si ritrovò in un prato.

Era stanca, le gambe le facevano male, il respiro era corto. Si sedette nell’erba, e poi si sdraiò. Eleonora lasciò che il suo corpo pesante cedesse completamente alla forza di gravità. Avrebbe voluto sprofondare fra le radici dell’erba, sotto terra, nel buio, nel silenzio.

Quando aprì gli occhi sentì il cielo bianco e compatto premere su di lei come un soffitto troppo basso.

Qualcosa attraversò l’aria, un movimento irregolare come di piuma mossa dal vento. Ma non c’era vento. Eleonora batté le palpebre e guardò di nuovo.

Era una farfalla, piccola, gialla, si muoveva senza peso.

Eleonora rimase incantata.

Decise che sarebbe diventata come quella farfalla e sarebbe volata via da tutti quelli che volevano schiacciarla.

Smise di andare in cucina; quando aveva paura o si sentiva triste fuggiva nel prato a cercare la sua farfalla.

Smise di mangiare a pranzo, con la scusa di fermarsi a studiare a scuola.

Eliminò la colazione, bastava uscire all’alba, quando i suoi genitori dormivano ancora.

Camminava ovunque, a lungo. Le sue gambe si fecero più leste e il suo respiro meno affannoso.

Il peso scivolava via dal suo corpo giorno dopo giorno.

Eliminò i vestiti pesanti per essere libera e lieve nel suo camminare.

Il freddo le carezzava le braccia smagrite e le dava un brivido che iniziò ad amare.

Tagliò i capelli corti,  levò peso dalla schiena, dal collo e dai pensieri.

Cambiò il suo nome in Ele, così che la lingua dovesse solo sfiorare il palato.

Ma non le bastava, il mondo attorno a lei premeva ancora.

Smise di mangiare anche a cena.

Mentre i suoi genitori litigavano, la sera a tavola, lei divideva il cibo nel piatto e si alzava dopo aver bevuto solo un bicchiere di acqua.

Il suo corpo si fece esile, ma lei sentiva la mente espandersi e diventare forte.

Un giorno, mentre era nel suo prato, la testa iniziò a girare e lei svenne.

Prima di perdere i sensi ebbe la sensazione di librarsi in aria, come quella farfalla, e per un attimo fu davvero felice.

Quando all’ospedale tentarono di riacciuffarla, coi loro aghi e i loro tubi, Ele era già volata via.

Leggera.

Un racconto di Sara Bosi

Illustrazione di Francesco Paci

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