Mirtilli

Eredità e Libertà

Andammo a vedere i Pumas nella fornace solare di un campo d’alta quota: 

Era il crepuscolo ma all’Olímpico Universitario ci entrammo presto, in tempo per colmare il vuoto con la fantasia di un’erba medicinale da divi incaici (c’erano due tipe a seno mezzo scoperto, cupole lustre di lasciti di luce estiva) e niente rimase vero quando il colombiano fischiò forte e si diede inizio agli incantesimi della notte a venire.

Cuauhtémoc fece una roba che… 

Cuauhtémoc Blanco non ha mai vestito la maglia dei Pumas, men che meno del River Plate (gli avversari, «¡la Copa Libertadores, señoras y señores!», urlo lontano e nello stesso posto di Mariano Closs, relator) ma avevamo fumato le ceneri degli imperatori e andava bene così. 

E c’era lui, l’amico mio, che scrutava le cosce intabarrate delle scienziate tipo i biologi loro colleghi ma più a fondo, ispirato dal misticismo dell’aquila che cade e cade e cade nell’infinito spazio acquatico della sua mente che batteva le punizioni come quelli di giù, sul prato, fottevano (non sul prato ma): nel segreto di una vita privata soltanto intravista da uno sguardo in camera per i calendari dei prodigi che sperano di essere i prossimi eroi supremi: con la palla, con le palle.

Una bionda lanciò un’occhiata. 

«Ha le tette da universitaria quella» 

«La bionda?» 

«Sì, secondo me è americana. Fidate» 

«Non pare di qua in effetti» 

«No, infatti. Ma dovrei conoscerla per capirlo meglio, no?»

Silenzio. Sospiro. Sigaretta. 

«Che faccio: vado?» 

«Vai, vai…» 

Andò simulando la cuauhtemiña salto del canguro tra quella coppia di tette per mettersi in prospettiva sulla linea di porta vista dalla mia cella di isolamento e io seguii a destra i Pumas che avanzavano chini sul pallone, come cammelli o dodi stanchi di sabbia e calchi d’orme di storia paleozoica, e a sinistra l’amico mio che muoveva le mani come Guardiola da giovane (che nell’ora delle nostre Ande d’esportazione, da vecchio, allenava i Pumas: ecco perché si giocavano la finale, quelli, gli studenti di calcio coi peli da puberi nell’eterno meso della loro giovane América) e una ragazza sugli spalti rideva, non la bionda che faceva i denti serrati a metà con la lingua in pre-schiocco muto da argentina e stavolta capii e urlai: 

«¡Soy Diego Armando Maradona!» 

con tutti gli aromi della voce rioplatense e lei si girò e la vidi in piena faccia e sembrava sì argentina, con tracciate sul contorno di una mascella erotico-volitiva tutte le usanze degli occhi che faticavano a capire se seguivo le bocce o la palla accanto sempre in prospettiva, dove tutto era mutato dal clima dall’aria dall’altitudine di una canna a 2500 metri ca. di capitale azteca che cantava le rime del mondo nuovo, con l’erbatahualpa dei venditori di un chili cupo in pentole da gelato e loro che lo vendevano neri come teschi di Cusco con spicchi di bocca bui e buoni a noi bianchi condottieri fasciati di luna in cerca di sesso: ma pure quelle là. Pensammo, penso. Pensieri comuni e mortali. 

E tra gli effetti di un lungo tempo di mugugni all’ombra di un intento e di gol annullati dalle loro sagome perfette e dal colombiano Milton Maidana del dipartimento di Antioquia che si protrasse fino a una chilena di un minuscolo neo-acquisto guaraní tipo capra, sbocciò l’esplosione monumentale: l’amico mio a gridare come chi non conosceva il vero ritmo della festa universitaria, lì, a Città del Messico, all’UNAM: 

«¡Pumas campeones de Sudamerica, señoras y señores!» e vicini di spalle in salto io-la bionda argentina chiamata Vero dall’amica sua-la messicana pura criolla figlia del serpente piumato che aveva tatuato senza piume la lettera S di Soledad il nome che le aveva dato la patria terra con sua madre il 18 agosto 19** a Guadalajara, la città dei mariachi che intonarono l’inno che da quel giorno rispecchiò la sua voce. 

«¡Ganamos la Copa, chinga!»

e l’amico mio: 

«L’amica tua argentina è del River me sa»

«No entendía nada» 

direttamente all’amica sua:

«Tu es hincha de River, ¿es verdad?»

«¡La puta que te parió, Tano! Soy de Racing.»

«El Cilindro de Avellaneda…»

sbottai bello elevato e lei sorpresa con gesti e parole e strizzate d’occhio allargando l’iride chiara come la Croce del Sud dove era già estate e che chissà se illumina ancora il suo cielo quotidiano notturno e capovolto. 

«Vero…». 

Invece io dissi il mio, di nome, così come l’amico mio il suo nel mentre ne girava un’altra e lei, la Vero de Avellaneda allarmata: 

«¿Está permitido?» 

guardando l’altra riferita a lui, a Lei, la santissima señora María Juana: 

«Todo permitido aquí, todos locos… Forza Rooo-mah!».

E finì tutto in una sciarada di mani che palparono culi all’uscita o braccia in spalla e clavicola o movimenti barbari di bacino e labbra e labbra piccole tra i piloni del parcheggio dello stadio; le mani a coppa sulla coppe di seno sul prato dell’Universidad National Autónoma de México e il sole nero su bianco che sbucò dal palazzo moderno azteco e le nudità scomposte dalla notte a spogliarsi del sonno post-eiaculatorio e lei gli umori, lei la voce roca da argentina dei film da premi internazionali: 

un premio fu la nostra condizione riscattata di contadini, su un altro campo, le mani in mano, manine l’altra seppi poi, manone lei da bionda un metro e ottanta o quasi, all’incirca più di noi eredi sbiechi di Traiano. Più di me, complice delle sue lontanissime estati.

«Uniamole così capiamo dove finisce» 

«¿Qué?» 

«Questa storia»

Un racconto di Luciano De Vivo

Illustrazione di Mirtilli

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