Mirtilli

Giada

Wara e il nonno giunsero dal sentiero della ferrovia dismessa. Lunghe trecce lei, pelle antica lui. Giada fece loro cenno di avvicinarsi al portico e si versò un bicchier d’acqua, il vecchio la metteva in soggezione. Come la prima volta, quando aveva detto oggi non è il caso. Aveva alzato gli occhi al cielo dopo aver scrutato i fondi del mate di coca: volava basso il condor, e una nuvola grigia faceva da sfondo alla sua apertura alare, immensa e maestosa. 

 Avanzava vestito dei colori della terra, masticava foglie di coca e stringeva con entrambe le mani il nodo dell’aguallo, la sacca che teneva sulle spalle. Wara risplendeva accanto a lui, la gonna da cholita, plissettata e rossa come i ricami della blusa, il collo nudo e palline colorate tra i capelli che le ricadevano come campanelle sulle spalle. Un’isola di silenzio, Wara.

-Si può fare? –  le chiese Giada, tendendo la mano a Gonzalo.

-¿Atikunmanchu? – disse la ragazza.

Lui alzò lo sguardo, muto. Una statua di bronzo, Gonzalo.

Aveva raccolto il San Pedro col consenso di Inti e di tutti gli astri delle Ande; l’aveva tagliato come solo uno yatiri sa fare, senza disperderne il succo né ferirne il tronco. E aveva portato miele buono e cingani, il distillato d’uva per la bollitura. 

Dispiegò l’aguallo e dispose il tutto sul tavolo in veranda. Con i suoni duri del quechua parlò di un pueblo lontano, della radura di rena bianca in mezzo alla montagna, del fiume che la attraversava e da cui dovevano tenersi lontane. Quando fece per andarsene, Giada lo omaggiò con un cenno del capo, lui sputò il bolo masticato tra i suoi piedi di cuoio e quelli di lei in tacco dodici. Giada si sentì avvampare.

Quell’uomo sapeva che era l’orfana viziosa di un ricco omicida lombardo. Era al corrente della sua infanzia in parlatorio a colloquio con il padre – carcerato per aver massacrato la sua bella madre sudamericana – e sapeva della sua giovinezza da ninfomane e della cocaina a fiumi. Ne era certa. Da come le aveva indagato gli occhi.

La jeep era pronta. Giada chiese del rito celando il suo vero interesse. Wara la invitò ad ascoltare, ascoltare e basta: ascoltare il silenzio, ascoltarsi dentro, ascoltare lei, se e quando avesse parlato.

Risaliti i quattromila metri di Potosí, si aprì loro l’altopiano vasto e verde. Qualche lama sputava, alcuni campesinos rimettevano vicuñas, bambini terrosi giocavano accanto alle mamme che vendevano humintas di mais. Poi il pueblo, le finestre accese sull’ultima luce del giorno e la vita che rincasava fiacca. Zaini in spalla, percorsero il sentiero oltre il quale la radura si schiuse candida come un lago ghiacciato.

Montarono la tenda al crepuscolo.

Fecero legna sotto una luna gonfia e bassa.

Accesero il fuoco nella sua luce nivea.

Era bella Wara. Le ombre del falò voltolavano sulla sua pelle tenace e la sclera abbagliava, come il sorriso tra le labbra dischiuse. Recuperava il cuore del San Pedro esprimendo un ringraziamento implicito anche nel gettare ciò che non avrebbe usato. Lo immerse nel cingani, lo ricoprì di miele, mise a bollire il miscuglio. 

– È il cibo degli dei. Vorrà uscire da te. Se vincerai la nausea, sarà perché ti avrà purificato. Solo allora potremo fare il viaggio insieme – sussurrò rimestandolo, e, quando fu pronto, glielo passò in una tazza di metallo. Una poltiglia verdastra, viscida e sgradevole al gusto, che Giada ricacciò dentro a ogni conato.

Si stese. Chiuse gli occhi. Forse dormì. Finché con un grido muto si sollevò a sedere, la bocca spalancata e gli occhi sgranati. 

– Come stai? – chiese Wara accanto a lei a gambe incrociate.

– I miei contorni sbiadiscono… Tutto intorno diventa…

– È il mondo naturale, lo percepirai sempre più intensamente.

Col respiro affannato, Giada le cercò le giovani mani millenarie e annuì.

Sentiva la natura entrarle dentro, assorbirla con una potenza che la scaraventava fuori da sé. Lei scoloriva lentamente e si mescolava al vento mentre giocava con le forme rivelate. Ogni suo senso dilatato. Se immaginava un volto nel cielo, allungava una mano e ne coglieva la consistenza. Toccava la ruvidezza della corteccia degli alberi sulle cime lontane, sentiva l’odore delle pietre e dell’erba sui crinali. Catturava le stelle. Palpava la luna.

Un contatto diverso con l’aria e la terra. Un bisogno di aderenza così forte che dovette togliere scarpe e calzini. Non lo sentiva il freddo sotto i piedi, solo la cedevolezza incerta del fondo sabbioso. Fu allora che le arrivò forte il rumore dell’acqua e si voltò in direzione del fiume.

–  Non puoi andare – disse Wara.

–  Solo le caviglie.

–  No. Le anime degli annegati vivono nelle acque che li uccisero. Sono spiriti buoni, ma se nel loro andare notturno incontrano qualcuno sugli argini lo trascinano giù.

Poté ben poco, Giada. Aveva colto il segreto: il fiume era senziente e senza tempo, proprio come l’universo. Nello scorrere dell’acqua non c’è passato, non c’è futuro. Un’epifania, questa, che le permise di prendere il volo, allontanarsi da sé, tornare indietro e venirsi incontro in modo nuovo. Nel presente. Lì e ovunque. Oltre le ombre. In uno stato di coscienza alterato verso il sublime. In uno sposalizio lucente col creato.

Cercò le parole per raccontarlo a Wara, fin quando capì che le parole non le servivano più.

Un racconto di Federica Rigliani

Illustrazione di Mirtilli

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