La luna e il colonnello

La mela esplose e Beppe si ritrovò sull’erba bagnata del parco. Puzzava di whiskey e tabacco, la barba crespa risentiva dell’olio fritto delle patate della mensa e la macchia di maionese era ancora sul bordo dei pantaloni. L’orologio del campanile segnava le 00.08, come nell’ultima occasione. E come nella penultima. E come nella prima. 

In otto minuti nulla cambiava e le fitte alla testa provocate dai passaggi avevano le medesime intensità. Pareva così vicina la luna, aveva ripreso il colore del latte. 

Beppe si stese sulla panchina di fronte alla chiesa, si rannicchiò nel cappotto. L’aria umida sferzava la piazza vuota, brinava le vetrine dei negozi, i parabrezza delle auto e gli gelava il naso. Pianse a dirotto, pensando alla piccola Dorothy.

Ci riprovò il mese successivo. Stavolta aveva portato con sé una mannaia rubata dalla cucina della mensa. Se solo avesse beccato subito l’uomo con il soprabito nero…beh, avrebbe saputo cosa fare.

Si sedette sul prato e attese la mezzanotte. Ai primi rintocchi volse gli occhi smaniosi alla luna e il miracolo accadde di nuovo. Il satellite cominciò a lampeggiare; spariva e riappariva in continuazione rifulgendo in cielo, finché di colpo non si tinse di rosso. Il fascio di luce vermiglia proiettò il buco segreto sull’argine del laghetto, Beppe vi saltò indentro e sulle note di Surfin’ Safari per la tredicesima volta fu scaraventato nel 1964.

E riecco quel meraviglioso sole d’aprile che rosolava i muri lucidi e tirati a nuovo del campanile. I rintocchi che annunciavano le 12.00 sovrastavano gli assoli ritmici di David Marks e il chiasso della gente in festa. 

Come di consueto, Beppe si corporizzò nei pressi del carretto dello zucchero filato. Aveva un’espressione determinata. Vide sfrecciare davanti ai suoi occhi Vespe multicolori e Giuliette. Sull’altro lato della strada passeggiavano femmine in minigonna e maschi con jeans sdruciti e camicie sgargianti. Scene che ormai conosceva a memoria. Tutti si dirigevano verso il luna park, dove le giostre erano in azione e i bambini gridavano di gioia.

Nessuno fece caso al suo abbigliamento strampalato e lui decise di guardarsi attorno nella speranza di trovare in anticipo il tipo con il soprabito. I due operai che trasportavano il divano nella falegnameria, il taxista che apriva lo sportello per far salire la signora grassoccia, il monaco che colloquiava con un gruppo di fedeli. Nulla di nuovo rispetto a quanto si era appuntato durante i precedenti passaggi. Il jukebox sul palchetto propose Don’t worry baby e gli ricordò che dovevano essere le 12:03. Gli restavano cinque minuti.

Estrasse la mannaia e si mise a correre, facendosi spazio tra la folla e spintonando chi era lento a spostarsi. Avvistò il tendone bianco e rosso e le insegne luminose. Il grande carosello era già in funzione; la donna che amava e la piccola Dorothy dagli occhi blu e profondi come il mare ruotavano sui cavallucci d’avorio con finimenti dai colori vivaci e si scambiavano sorrisi.

‹‹Anita, Dorothy! Scendete giù! Scendete giù!›› gridò Beppe a squarciagola. E allora Anita ebbe un sussulto di spavento, il viso dai tratti angelici si irrigidì e d’istinto tirò verso di sé la bimba, evitandole un capitombolo. 

‹‹Stia alla larga lei, con quel coltellaccio!›› gli intimò il genitore dalla pelle scura del cavallo dietro.

‹‹Papà, ma quest’uomo è Babbo Natale?›› gli chiese il figlioletto, incuriosito.

Anita e Dorothy erano già sparite dalla sua vista e così Beppe si lanciò verso il macchinista.

‹‹Fermi la giostra, subito!››

Questi alzò le mani al cielo, terrorizzato.

‹‹Non mi faccia del male, la prego!››

All’improvviso, Beppe si sentì afferrare da braccia possenti: due agenti in divisa lo avevano immobilizzato. Gli levarono la mannaia e lo trasportarono di peso verso il posto di polizia.

‹‹Devo salvare mia moglie e mia figlia!›› inveì.

‹‹Stai calmo, barbone. Un’altra parola e ti meno›› lo minacciò uno dei due, torcendogli il gomito fino a farlo gridare.

‹‹Voi non capite! Ci sarà un attentato, esploderà tutto e della gente morirà!››

‹‹Le mie palle stanno per esplodere, idiota. Se mi perdo un gol dei sovietici per colpa tua, te le do di santa ragione›› fece l’altro, spegnendo la radiolina che aveva in tasca.

Beppe volse la testa all’indietro con rassegnazione ed ebbe il tempo di incrociare per un attimo gli sguardi di Dorothy e di Anita. Lo fissavano, mentre veniva trascinato via. Non vi era più traccia di paura nei loro occhi, bensì la compassione di chi vuol comprendere cosa cercasse quel vecchio mezzo ubriaco.

Poi, quando giunsero sulla piazza, Beppe scorse un uomo con un soprabito nero e un cappello cilindrico. Era di spalle e pigiava i tasti del jukebox. A un certo punto prese da una tasca un pomo verde e cominciò a lisciarlo.

‹‹È lui! È lui! Quella è una bomba! Fermatelo!››

L’individuo si voltò stranito. Era un signore di mezza età con baffetti sottili, corti e scuri. Non appena notò Beppe, gli rivolse un risolino sarcastico che lasciò intravedere un canino d’oro.

Gli agenti si fermarono e uno dei due gli disse mortificato: ‹‹Ha bevuto un bicchiere di troppo››. 

Il tipo annuì comprensivo, allontanandosi.

‹‹Buona passeggiata, signor Colonnello››.

Un minuto dopo il boato riportò Beppe nella solitudine notturna del parco. Sorrise di gioia osservando quel cerchio perfetto, luminoso e magico. Ora sì che avrebbe saputo come agire, al prossimo plenilunio.

Un racconto di Carmine Madeo

Illustrazione di Francesco Paci

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