Alfio

Il braccio del bambino lo tiene incollato al materasso. Curioso di scoprirne la consistenza, Alfio alza con difficoltà la mano sinistra e delicatamente tocca, saggia con le dita a pinza: gommoso come una panna cotta e pesante come un’incudine.

Li aveva visti, questi tre che ora occupano il suo letto in un modo che fino a poche ore prima avrebbe definito impensabile, prima che Mila entrasse con tanta naturalezza a consegnargli il suo pacco a sorpresa, li aveva visti seduti sul ciglio della strada mentre guidava piano verso il mare – molto piano, come sempre quando è assorto in certi giri di pensieri che gli fanno dimenticare di premere un po’ sull’acceleratore. 

Tutta colpa di quella perdita di gas, non è che avesse voglia di venire al mare.

Comunque, lungo la strada aveva notato quei tre. Se ne stavano seduti sotto un pino, al bordo dell’Aurelia; la donna reggeva un cartoncino con su scritto MARE a pennarello. 

Erano entrati in macchina senza esitazioni.

“Grazie del passaggio, avevo promesso ai bambini che li avrei portati al mare, ma non riesco mai a mantenere le promesse”.

“Siete fortunati, sto andando in là”. 

I bambini erano sudati e coperti di polvere. Dotati di un’inattaccabile coerenza, o consapevolezza, appena saliti avevano messo le scarpine sul sedile e si erano dati da fare: strofinavano con forza le suole sulla tappezzeria per staccare ogni traccia di sporco.

“Da dove venite?”

“Dalle parti di Parma, è da stamattina presto che facciamo l’autostop”.

La donna aveva una forte inflessione emiliana, con vaghi accenti slavi. Era abbastanza giovane e forse anche bella, ma con un viso da Madonna vecchia. I bambini dietro saltavano e urlavano, e la madre sembrava non sentirli – i suoi mille anni abbandonati sul sedile.

Alfio non sapeva cosa dire. La faccenda, il domino di eventi che l’aveva portato lì, era iniziata al rientro dal lavoro con quell’odore di gas all’esterno del palazzo e il tecnico che gli chiedeva uno straccio e del sapone, era proseguita con lui che, grasso e goffo, si precipitava fuori di casa con lo straccio in mano, e si era conclusa con lo schianto della porta che gli si chiudeva alle spalle.

Di questo, avrebbe voluto parlare alla ragazza vecchia. E del fatto che ora stava recandosi alla casa del mare, a prendere le chiavi di riserva; anzi no, della casa del mare non avrebbe dovuto parlarle, sarebbe stato di cattivo gusto. Comunque non le aveva raccontato niente, perché in macchina c’era stato un rumore che sembrava uscire dalla gola di una enorme rana toro.

“Oh accidenti”, aveva detto Mila. “Iuri ti ha sporcato tutto il sedile, hai degli stracci in macchina?”

Era la seconda volta in poche ore che qualcuno gli chiedeva uno straccio. E no, non teneva stracci in macchina, non gli erano mai serviti. Pazienza, domani avrebbe portato la macchina a lavare.

“Mi dispiace, non sono un uomo previdente. Sai un’altra cosa che non ho, Mila? I segnalibri: mai usato segnalibri in vita mia. Faccio un sacco di tentativi per ritrovare la pagina, mi sembra più giusto. Ci vado sempre abbastanza vicino, sai. Poi, le cose vanno come devono andare”.

Mila non aveva trovato niente da dire. Non avevano più parlato per un pezzo finché Iuri aveva iniziato a lamentarsi per la fame.

“Ma com’è possibile, non capisco”, aveva detto Alfio, “non è lui che ha appena vomit…”

“Eh per forza, ha lo stomaco vuoto”.

A quel punto gli era sembrata una buona idea portarli a mangiare qualcosa sul mare – una terrazza sugli scogli dove i bambini si erano esibiti nel lancio di piccoli pezzi di pizza che a volte planavano fino ai tavoli vicini.

“Torni in città, Alfio?”

“No, sono stanco. Penso che mi fermerò qui”.

“Qui, dove?”

“Ah beh sì, in una casetta, proprio un buco…”.

“E non potresti farci stare con te? Per favore, solo per stanotte, ti va?”.

Il caldo aveva surriscaldato la pozza di vomito: l’odore in auto era insopportabile e Mila, giustamente, aveva detto che i bambini non potevano stare sul sedile dietro. Li aveva sistemati davanti – la piccola Maria in braccio e Iuri nel mezzo, appollaiato sul freno a mano.

Quando Alfio aveva svoltato nella stradina dove avrebbe dovuto parcheggiare, Iuri gli era saltato sull’inguine e aveva stretto il volante con quelle sue manine forzute, opponendosi al movimento verso destra che Alfio cercava di imprimere alle ruote nonostante il dolore acuto al basso ventre, e così alla fine erano andati a sbattere contro il lampione. Per fortuna nessuno si era fatto male. 

Avevano raggiunto la casa a piedi, e solo allora si era reso conto di non avere le chiavi. Ma Mila già stava aiutando Iuri a scavalcare il cancello e da lì con una sassata avevano spaccato la finestra della camera e si erano infilati in casa, e subito dopo avevano aperto la porta d’ingresso dall’interno. E non si può dire che non fosse stato un gesto gentile, quello di non umiliarlo con un impossibile passaggio attraverso la finestra. 

Si era buttato sul letto vestito. La donna aveva sistemato i bimbi nell’altra camera, poi gli si era sdraiata accanto, con i jeans, la maglia e tutto il resto.

“Sei contento, Alfio?”

Alfio stava già iniziando a fantasticare: nella sua testa ormai il braccio muscoloso del tecnico del gas si confondeva e sovrapponeva alla bocca rotonda di Mila. 

È proprio in quel momento che sono arrivati i bambini a intrufolarsi tra loro. 

Maria si è arrampicata sopra sua madre, Yuri invece si è incollato a lui, gli ha appoggiato una guancia nell’incavo del collo e un braccio di traverso sul torace. La sua pelle sudata emana un odore di mela renetta matura. Sorprendente.

Un racconto di Silvia Lenzini

Illustrazione di Melissa Brusati

2 thoughts on “Alfio

  1. Leggo tutto d’un fiato questo pezzo con il piacere di saperlo scritto da una compagna di liceo di cui ignoravo la vena artistica,tanta e ‘ la sua modestia.. Davvero piacevole e realistico. ..sembra di stare in macchina con i quattro personaggi.. brava Silvia

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