YORUBA

Monnet ricalcitrò contro l’inattualità del mio progetto di ricerca:
«Qu-est ce que vai a fare all’Afrique? Cretinate, cretinate!»
Ai tempi di cui cronaco, ancora occorreva che gli antropologi collezionassero le cimeliche stravaganze di genti remote: era la lunga epoca del razzistico fanatismo che voleva l’antropologia come mera raccolta antologica di bislaccherie (materiali o immateriali) di etnie sperdute che fomentassero l’occidentalismo.
«L’Afrique è già anthropologisée, ça va sans dire! Nous savons già tutto! Vacci pure en Afrique a sprecare le ressources universitaires!»

               Un flessuoso giovane sedeva spoglio su un masso depilato dalla gramigna: pigiava al suolo le punte dei piedi con i calcagni sollevati e posati sulle grinze della sua sedia di pietra. Il suo membro protuberava venoso dinnanzi a un’etera prostrata e bavosa. Il ragazzo si torceva e avviluppava al punto da parere disossato delle vertebre lombari: colla bocca sucante si lusingava il prepuzio foderato dalla medesima pelle delle labbra: il fluido fallico gli acquava la gola che gorgogliava e gorgogliava. L’etera, coccolando e carezzando la polpa dei testicoli, si univa a quella contemplazione orale che infradiciava di schiuma l’abnorme pene dell’iniziato di Eshu. Se dell’umore virile colava sul terreno, per onta dello spreco la cagna si chinava a leccarlo ovunque fosse sparso: terriccio, petali, schegge, vermi, escrementi. Deglutiva l’impasto melmoso e di nuovo poppava a quella potenza teofanica. Finalmente il culmine seminale proruppe dal pertugio carnoso e appiccicò le bocche dei due in estasi, che non desistettero da baci patetici e fanatici nemmeno dopo lo svigorimento. Quando gli amanti s’accomiatarono campionai un sorso della semenza abortita; lo allego.
               Zizze e zinne zeppe: le tenere tette palpitavano per i poppanti che poppavano la pappa e pappavano le poppe. I monelli monchi di molari masticavano le morbide minne caramammelle. Bocche alle bocce.
Femmine spoglie fino alle cintole esibivano della lussuria le sorgenti mammarie. Le puerpere spazzavano coi piedi scalzi la brina dello sterrato. Come piatti della bilancia, i palmi aperti delle donne reggevano i bebè dai culetti, uno per tetta. Marciavano e il vespro si aranciava mentre alleluiavano Iyami-Ajè, Iyami-Ajè.
Uomini cosparsi di tenebra macchiavano il suolo grugnendo il nume di Oxum e saltando attorno a un rogo: mulinavano piccole canne di carne esangui e flaccide che battevano le une contro le altre. Un anziano abbigliato della medesima tinta del tramonto piroettava al centro in prossimità del falò. Dopo la danza, raccolse i cordoni ombelicali dalle mani dei danzatori.
Le mamme schiacciarono la terra, pesando ognuna due generazioni, e furono presso gli uomini. Questi stapparono i bimbi dai seni e li posarono a terra perimetrando l’area del rituale. Le coppie si avvicinarono al fuoco; i cordoni sfrigolavano fragranti: i salsicciotti infilzati dagli spiedi arrostivano tra le dita dell’anziano. Subito dedussi un matriarcato dacché i cordoni cotti furono sempre porti alle donne; adesso rimugino invece sulla possibilità che furono semplicemente resi alle proprietarie. Moglie e marito morsero le estremità del cordone spiegato lungo lo spiedo: piluccarono quella funicella della vita finché le bocche a vicenda non si ostacolarono. Data la consistenza della carne, capitò che certe coppie rovesciassero un po’ di bolo al suolo. Quello che non finì tra le fiamme del rogo e che non fu raccolto poi, è qui accluso. Mi è stato impossibile rimediare un cordone che non fosse stato masticato. Nessuna traccia delle placente.
               Un letamaio come camposanto: ci inumavano i morti. Sei obesi fertilizzavano le salme. Quando qualcuno agonizzava – i giovani; i vecchi mi parevano imperituri – notavo i lardosi spolpare le carni di capre e capretti e contrarsi in acuta sofferenza le budella abbracciandosi il ventre colle mani unte. Imbandivano loro la mensa al segnale del sacerdote, una volta che questi aveva visitato il moribondo. I sei tripponi ammucchiavano il concime nelle viscere e serravano le madide natiche: mi pareva che agonizzassero insieme al moriente. Mi confidarono poi che ab origine il rito prevedeva che gli obesi banchettassero in casa dell’allettato benedicendo insieme Nana e ovviamente Oddua; in seguito, per la stazza degli omaccioni, il pranzo cominciò a tenersi all’esterno della tenda del moribondo: le preghiere divennero corali, e quell’usanza parve da subito atavica. Al trapasso del poveretto, i parenti prossimi trattenevano le lacrime e i singhiozzi come gli obesi le feci. La morte costipava gli umori del villaggio intero. Dopo che le spoglie venivano sepolte dal cumulo di terreno, i sei impinguati omaccioni si inginocchiavano ognuno presso un lembo di terra e defecavano fin quasi a eviscerarsi. Versi di sforzo e gemiti sommessi unisonavano. Aiutati a levarsi, i ciccioni davano spazio alla famiglia in lutto; i pianti dei parenti rammollivano lo sterco che il sacerdote provvedeva infine a spalmare sulla tomba di terra; latrava, estatico, le grazie di Obatala e Yemaja. Quando mi sorpresero a trafugare il terriccio al cimitero, mi bastonarono e congedarono come ospite: non sussistono, purtroppo, evidenze di quest’ultimo costume.

Letti i perculanti commentari, Monnet mi sbraitò: «Faussaire obscène! Falsario bastardo! L’Afrique, idiot, l’Afrique è già été anthropologisée!»

Un racconto di Ciro Terlizzo

Illustrazione di Francesco Paci

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