Mirtilli

Se non ci divide una montagna

È cominciato tutto dopo aver passato il crestone, davanti a una parete ondulante verde intenso a macchie. Era da un po’ che non ci sentivamo così liberi.

A sinistra della parete, in un lembo di roccia, c’era la fossa della Magàra; a destra, un declino d’erba verso i cavalli di Sansone; la parte centrale, verso cui puntava la visiera del berretto, era dominata da un gruppo di scimmie: su un posatoio roccioso, quadrupedi dal pelo bianco sostavano come in attesa.

Un vecchio raccoglitore di funghi – porcini, gaddinazzi- salendo la strada alla fine delle ultime case del paese, ci aveva raccontato la storia: «È da’a regina», ha detto riempiendo i bicchieri – e mentre pisciavo, il mio amico ha versato del vino nelle nostre borracce, diluendo l’acqua. 

Biascicava tra lunghi sorsi, i capillari del naso crepati. «Ha lasciato un tesoro, si dice, tra Tirirocca, Serralonga e Lucerna, con a guardia le scimmie bianche. Quando è piena luna, a mezzanotte, salta fuori un gallo, con piume d’argento, zampe e cresta in oro, occhi blu zaffiro che canta tre volte. Ma alle scimmie non deve piacere la musica perché appena il gallo inizia a cantare lo afferrano, lo sbranano sulle pietre, gli strappano le ali e poi spariscono. Ma chi riuscisse a catturare il gallo e uccidere le scimmie vincerebbe un grande tesoro: sarebbe u padrune della montagna».

«E nessuno è salito col fucile?» Ha chiesto il mio amico buttando giù il bicchiere.

«Nessuno può essere u padrune della montagna». Il signore dei funghi si era improvvisamente fatto serio. Non ci ha più chiesto se volevamo altro vino e ce ne siamo andati ridendo.

Salivamo il crestone tracannando dalle borracce, tra una pausa e l’altra, una brodaglia calda che gocciolava e che a volte sputavo a terra. La strada in salita ha curvato all’improvviso e abbiamo visto il posatoio di pietra.

«Ma ti immagini torniamo come ‘i padruni’ della montagna?». Ha dato un lungo sorso alla borraccia. «Ma, secondo te, punti il gallo o uccidi le scimmie?»

«Che intendi?», gli ho detto distratto.

«Per vincere l’oro, per essere ‘u padrune’».

«Secondo me manco ci stanno le scimmie, e tra un po’ il sole inizia a scendere».

«E quelle cosa sono?» Ha indicato i quadrupedi in fila, perfettamente immobili e dritti, aderenti alla voragine sotto al posatoio di pietra.

«Ci guardano eh? Si preparano». Ho ridacchiato.

«Infatti nessuno sale mai fino a qui». Ha zumato col telefono; guardava soddisfatto l’obbiettivo. «Vedi? Chiazzate».

«Sembrano statue… magari sono finte». Ho estratto anch’io il telefono, mi sono voltato per fare una panoramica, qualche selfie e poi un video: da un lato lotte tra faggi e pini loricati; dall’altra il cammino per una strada in pianura. Inquadravo il suo sorriso e il posatoio sopra di lui. E intanto un pensiero mi è passato in testa, come un fischio che richiama qualcosa alla memoria.

Il mio amico ha guardato il posatoio, seguendolo con lo sguardo, poi verso di me. «Ci vuole qualcosa che dia un senso a questo viaggio».

«Ricordi l’anno scorso?» gli ho risposto. Un’idea. «La parete è molto simile».

Mi ha guardato sorpreso, ha riso. «Quasi non me lo ricordo».

Io ho continuato, per ridere. «Non me lo scordo com’era prenderti dalla nuca».

Premevo lo sguardo sui quadrupedi, mi sforzavo di non guardarlo e intanto mi ero convinto che fossero solo pietre. Tutta quella strada solo per delle pietre. 

Vedendo che le fissavo con un’espressione delusa, ha fatto qualche passo in discesa. Credo non volesse perdere l’entusiasmo della salita.

«L’ho sognato a volte, sai» ho detto con una flessione melensa.

«Mi prendi in giro?». La voce gli è uscita sporca, impastata. Ha dato un lungo sorso alla borraccia finendo il vino. «Un’esperienza che provi. Cose che fai così. Come tu questa salita». Ha lanciato la borraccia in avanti, con uno scatto.

«Ma ti calmi». Gli ho detto nella maniera più neutra che conosco, ma non volevo abbandonare l’idea. «Le esperienze si possono riprovare…»

Ha arretrato d’istinto. «La smetti di fare il malato? Lo sai che non sono come te». 

Ha guardato me e poi il posatoio di pietra. Mi ignorava improvvisamente come se qualcosa richiamasse la sua attenzione. Volevo fargli male. Volevo prenderlo dal busto e buttarlo a terra. Volevo dirgli di non fare l’ubriacone e continuare fino a quelle pietre. Ma era in salita e meglio allenato di me così mi ha sbilanciato con un calcio, sono caduto a terra.

«Stai lontano!» Avrà pensato non so cosa; mi osservava con gli occhi spiritati dal vino come si farebbe con una bestia, come se fossi il gallo da catturare o la scimmia da abbattere. Ho provato a rialzarmi e a placcarlo una seconda volta. Mi ha tirato un destro aperto, apertissimo.

Non so cosa sia successo. Ho razzolato qualche metro per il pendio coi fosfeni in testa e quando mi sono alzato il mio amico non c’era più. Per istinto ho guardato anche il posatoio di pietra e senza pensarci ho proseguito la discesa. Le scimmie bianche erano sparite o forse non c’erano mai state.

Ne sono stato convinto fino a sera. Me ne sono accorto mentre fumavo alla finestra. Scorrendo le foto, guardavo le nostre facce in posa in un verde che all’apparenza appaiava tutto. Ne ho contate prima tre, poi quattro, poi sempre più. In ogni foto il posatoio aveva diverse figure e ora ho paura per lui.

Un racconto di Massimo Salvati

Illustrazione di Mirtilli

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