francesco paci

Il raccolto

Nel mio campo c’è un girasole di nome Carlo. 

Carlo è mio padre, e io non sono un girasole. 

Ho arato il campo assieme a mia moglie a metà marzo, ad aprile abbiamo piantato i semi, e quando sono spuntati i primi germogli sono sceso e l’ho trovato lì, con i piedi affondati nella terra e la faccia rivolta al sole. Era vestito completamente di verde, e teneva le braccia parallele al corpo, senza muovere un muscolo. 

Gli ho chiesto perché fosse lì, ma non ha risposto. È rimasto in silenzio, fermo. 

Lo abbiamo riaccompagnato in casa, l’ho fatto stendere sulla sua poltrona, ha mangiato, poi l’ho aiutato ad andare a letto. Il mattino dopo era di nuovo nel campo, vestito di verde, in mezzo agli altri germogli. Se ne è accorta mia moglie, era uscita a preparare gli irrigatori e l’ha trovato nello stesso punto del giorno precedente, mani parallele e volto al sole. 

Di nuovo non mi ha detto niente, né perché fosse lì, né il motivo del suo comportamento. 

Lo abbiamo riportato dentro, e questa volta si è arrabbiato: ha pranzato con noi, poi è tornato al sole, assieme agli altri girasoli, dove è rimasto tutto il giorno, faccia al sole fino al tramonto, alla fine ha abbassato la testa e si è addormentato. 

Sono andato a riprenderlo intorno alle dieci di sera, ma non è voluto rientrare, si è messo a piangere, ha urlato e mi ha colpito. Da quando sono nato non ha mai alzato le mani su di me, ma quella volta sì. Mi ha tirato uno schiaffo, ha abbassato gli occhi e ha detto: “Sono un girasole, lasciami in pace.”

Lasciami in pace

L’ho mandato a quel paese e sono andato a letto: voleva passare la notte al freddo? Bene. 

Mia moglie ha detto che lasciarlo solo, fuori, non era una buona idea: era pur sempre un uomo di settant’anni scalzo in un campo. 

“Sa dov’è la porta” ho risposto arrabbiato, poi sono andato a dormire. 

Per quanto ce l’avessi con lui ero sicuro che scendendo l’avrei trovato in cucina a fare colazione con la sua tazza di caffellatte, al massimo addormentato sulla sua poltrona… E invece no: era ancora lì, nello stesso punto, solo girato verso il sole. 

Non mi sono neanche vestito, sono uscito scalzo, l’ho preso di forza, e lui ha cominciato a colpirmi, a urlare, a mordermi. Quando siamo arrivati sul portico ha affondato i denti nel mio avambraccio, così l’ho colpito. Lui è caduto a terra, si è rialzato con il fiatone, e senza dire niente è tornato al suo posto.  

Abbiamo chiamato il dottore, gli abbiamo chiesto di venire prima possibile, che era urgente. 

Mi ha medicato il braccio, poi gli ho chiesto di visitare mio padre. 

Ha detto che per un’analisi più accurata avrebbe avuto bisogno di ulteriori esami, ma sembrava demenza. Era la prima volta che vedeva una cosa del genere, eppure era difficile che fosse altro. 

Abbiamo provato a chiamare un’ambulanza, per farlo ricoverare, o per lo meno per fargli fare qualche dannata cura in ospedale, ma non c’è stato verso. Appena hanno provato a toglierli la terra intorno ai piedi si è sentito svenire, ha aggredito i paramedici e li ha mandati via a schiaffi. 

Fortunatamente nessuna denuncia. 

Mio figlio ha chiesto perché nonno fa così, cosa c’è che non va, e io non ho saputo cosa rispondergli. Ha quattro anni e crede che nonno sia diventato un girasole.

Sul volto troppo abbronzato sono apparse delle escoriazioni, ma non se ne cura. Se ne sta lì in piedi, in mezzo agli altri. 

A fine luglio, quando le piante intorno a lui sono fiorite, mio figlio gli ha fatto un cappello giallo, grande. “Così anche il nonno è un vero girasole.”

Il medico è tornato un paio di volte, l’ha visitato, gli ha prescritto una pomata per la pelle, ci ha chiesto cosa mangia, se ha lamentato qualche dolore… 

“Niente, non magia niente. Se ne sta lì, gira insieme alle altre piante, e la sera dorme.”

“Se continua così…” e ha solo lasciato intuire la parola morirà. 

Vorrei che mia madre fosse ancora viva, lei avrebbe saputo come farlo ragionare. 

Il dottore ha suggerito di sedarlo e farlo ricoverare, ho detto che ci avrei pensato, ma sapevo che non l’avrei fatto. Se lui voleva starsene in mezzo ai girasoli, chi ero io per dirgli che non poteva farlo?

La verità è che non è stata la morte della moglie a ridurlo così, lui è sempre stato uno di loro, ha sempre amato anche le radici del suo campo, e se voleva morirci poteva farlo. 

A fine settembre ha cominciato ad abbassare la faccia, assieme agli altri girasoli. Mi sono seduto sotto il portico a guardalo come non facevo da qualche settimana, ho provato compassione per lui. Avrei voluto pensare che l’uomo che mi ha cresciuto si stava spegnendo a causa della demenza, ma non volevo mentire a me stesso: mio padre era lì, in mezzo ai suoi fiori, e non riuscivo a vedere la differenza fra lui e loro. Sono andato a letto chiedendomi se anche io avrei fatto quella fine, se mio figlio avrebbe fatto quella fine. 

Ho pregato che non fosse così. 

La mattina del raccolto mi sono alzato, mi sono affacciato alla finestra e al posto di mio padre non c’era niente, solo un mucchietto di semi di girasole.

Un racconto di Federico Bastianelli

Illustrazione di Francesco Paci

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