Ore d’aria

Nevica forte: la nevicata più copiosa dell’ultimo decennio, hanno detto in tv. I detenuti si muovono in file indiane ordinate, tutti con la stessa distanza l’uno dall’altro, entrando dalla coda dei ventuno aerei presenti sulle piste. Una strana processione arancione su un letto sempre più bianco che ricorda un quadro di Bruegel. Il primo Boeing 737 inizia le manovre di decollo: si parte nel ghiaccio per andare nel ghiaccio.

Dal sedile 12A, un uomo guarda la pista scorrere dal finestrino a oblò. Ha paura. È la prima volta che prende un aereo; d’altronde, avendo passato più della metà della sua esistenza in carcere, è normale aggiornare il proprio catalogo di prime volte ogni volta che si riesce a uscire da quelle mura. E lui, da quelle mura non esce da diciannove anni. Gli viene in mente suo nonno e di quando gli raccontò che per la prima volta vide il mare a ventisette anni. Come gli fece strano, sentire quella cosa. Gli sembrò quasi una frase a effetto detta solo per stupirlo. Ora lui, a trentasette anni, per la prima volta ha il culo su un aereo. Chissà a chi potrà mai raccontarlo per meravigliarlo.

Sul secondo aereo, nel sedile 14C, un ragazzo non guarda nulla. È sedato, è poco prudente effettuare degli spostamenti lasciandolo lucido. Il ragazzo è troppo violento e le guardie non vogliono ripetere lo stesso sbaglio di quando lo accompagnarono in infermeria e lui, sottratto un bisturi, recise l’arteria femorale di una guardia: dagli errori si impara.

Quando il terzo aereo si stacca da terra, una donna, nel sedile 7B, pensa intensamente al mare: non lo vede da anni, le manca. Può sembrare folle ma è la cosa che le manca di più degli anni da donna libera. Non gli amici, non la famiglia, nemmeno la libertà in sé. Il mare. Con quel suo rumore attutito, la schiuma che di notte sembra bianchetto che sgorga da una distesa d’inchiostro. Quando arriva il mare?, continua a chiedersi.

Sul quarto aereo, un vecchio pensa. È in carcere da più anni di quanti ne possa ricordare. Ha rapinato, sequestrato, ucciso. È stato un portatore di violenza e ora, appoggiando il capo contro la parete dell’aereo, gli scende una lacrima. Non sa neanche lui perché. Forse per questo cambiamento che in una vita di routine è comunque qualcosa di gigantesco. O forse perché finisce un capitolo della sua esistenza che era convinto si sarebbe chiuso soltanto con la morte. Invece ora può vivere una nuova esperienza: un lusso che pensava non gli sarebbe stato più concesso.

Sul quinto aereo una donna pensa al suo bambino, a come farà a venirla a trovare là dove stanno andando. Il direttore del carcere aveva assicurato che il governo avrebbe organizzato tutto, rendendo disponibili aerei per le visite dei parenti, ma è la Groenlandia, per Dio. Non un caso, pensa lei, che si sia scelto di trasferire lì, in quel posto dimenticato, tutti i detenuti. Una manovra epocale, dicevano in tv, con un enorme dispiego di forze. Enorme come quella distanza, tra un’isola di ghiaccio e suo figlio, che nella sua testa coincide con una sparizione definitiva. Non riesce a pensare di resistere se non lo può vedere: è l’unica cosa che la tenga in vita.

Sul sesto aereo, un uomo sul sedile 5A, guardando le nuvole complanari ai suoi occhi, ripensa a una gita in mongolfiera fatta con la sua Anna, una decina di anni prima. Quanto era bello, bucare le spumose nuvole bianche con lei al suo fianco. Vederla chiudere gli occhi e mettere le mani davanti al viso, prima di affondare nella nube, come se si preparasse all’impatto. La stessa posa che Anna fece il giorno in cui l’impatto avvenne davvero: occhi chiusi e mani sul viso; ma, quella volta, il suo rituale di protezione non bastò: lui andò avanti a colpirla con tutta la forza che aveva e le mani di lei scivolarono via dal suo volto, svelando i suoi begli occhi verde lago, non chiusi ma aperti, in una loro inedita fissità. Neppure in quel momento, lui si fermò.

Appena il settimo aereo si stacca da terra, un ragazzo seduto al 7C urla. «Non voglio andare: lasciatemi qua!». Gli agenti della polizia penitenziaria gli sono subito addosso. Prima cercano di calmarlo a parole. Il ragazzo sembra non sentire niente e con le sue urla sale l’agitazione degli altri detenuti. Per calmarlo provano a piantargli una siringa di Prazene nel collo, ma si muove troppo. È il segnale che stavano aspettando: due file dietro il ragazzo, nel posto 9D, un uomo fa un cenno con il capo a un altro detenuto, seduto al posto 11B che, a sua volta, guarda un’altra persona al 15C, la staffetta di sguardi si conclude con quest’ultimo che occhieggia un uomo al 16A. I quattro, armati solo di disperazione e speranza, partono all’assalto dei poliziotti che, impegnati nel placare il ragazzo, non si accorgono di ciò che sta per travolgerli. La loro violenza investe i secondini. E si accaniscono ancora e ancora, usando i pugni come fossero dei martelli da lavori forzati. Strappano le armi ai corpi ormai inermi: hanno vinto, l’aereo è conquistato. Nessuno di loro lo sa pilotare, ma questo lo sapevano anche prima. Non fa niente. Possono minacciare i piloti e farsi portare in qualsiasi posto vogliano. Quando hanno formulato il piano, non si sono soffermati un istante a pensare a un’ipotetica destinazione finale, come se non avessero neanche preso in considerazione di riuscire a farcela veramente. Adesso, nessuno prende la parola per decidere il da farsi. Stanno tutti in silenzio come a godersi il momento e il cielo. Probabile che, se potessero, è lì che vorrebbero rimanere: sospesi, i piedi staccati da terra, in un cielo appena conquistato, con il mare in lontananza e lo stesso punto di vista dei gabbiani.

Un racconto di Stefano Marino

Illustrazione di Elena Giorgiana Mirabelli

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