Cara mamma

Cara mamma,

tuo figlio è un fannullone da bar. Non mi ero accorto della piega che sta prendendo la mia vita fino all’altra sera, quando con un’amica sono entrato in questo posticino frequentato da studenti, in una traversa di via Venti Settembre, dalle parti dell’università, e Fiore, un barista che mi conosce, s’è picchiettato il polso con l’indice: «Siamo in ritardo, eh?».

Ora, lo so, scuoterai la testa. Sospirando ti volterai verso papà: «Speriamo almeno che non beva e non fumi tanto»

Papà allargherà le braccia: «Non è questo quello che gli abbiamo insegnato noi».

D’accordo, d’accordo. Almeno in parte avete ragione. Tirare su a modo i miei fratelli e io, educarci, deve essere stato facile come educare una scatola di ragni. Appena superata la soglia dell’infanzia, ogni ragnetto esce dalla scatola e si getta alla ribalta del mondo. Non bere. Non fumare. Non buttare i soldi. Stare con i piedi per terra. Pregare qualche volta il Buon Dio. A vedere i tuoi figli fare esattamente il contrario di quanto gli hai insegnato, mi sa, ti coglie il rimpianto di non averli affogati da piccoli.

La battuta di Fiore, mamma, l’ho colta anch’io. Ma non ho avuto il tempo di rispondere perché la mia amica si è seduta a un tavolo con un conoscente. E alle mie spalle, preannunciato dal caratteristico odore di pipì, è sbucato Celso, il vecchio che abita sopra il bar. Con la scusa che camminare gli fa bene alla circolazione, bottega aperta e la barbaccia gialla sporca di sugo, scende ogni sera in cerca di qualcuno che gli offra un bicchiere. Tutti sanno che anche un goccetto potrebbe ucciderlo, ma il vecchio è un segugio che punta la preda. In una mano il bastone, nell’altra una Moretti da 66 vuota raccattata chissà dove, zoppica fino al banco, «Ragazzo», agita la bottiglia e la posa davanti al naso del barista, «Di’ ai tuoi clienti di non lasciarmi i vuoti sulla porta».

Non è per gli schiamazzi, per carità. Lui non è come i vicini, non chiama i carabinieri alle due di notte. È contento quando i ragazzi cantano sotto le sue finestre: ne ha fatte di feste da giovane, è andato a spassarsela fino in Egitto coi soldi guadagnati in Svizzera: «ein zwei drei», si strofina i polpastrelli dell’indice e del pollice, come per far sentire anche a me, in attesa del mio turno di ordinare, il fruscio dei milioni negli anni d’oro. Come a dire che anche lui si è goduto, anche lui è stato giovane, non è per quello che si sta lamentando.

«È che se vengono a trovarmi i miei parenti, pensano che ho bevuto io tutte quelle bottiglie. A proposito, da bravo», a Fiore, che ormai pensava ad altro, il vecchio Celso indica il bottiglione in bella mostra sul banco: «Fammi un mezzo di Custoza».

Oggi ho saputo che Celso è morto. La cooperativa comunale che gli porta quotidianamente il pasto caldo, da quattro giorni trovava i piatti ancora incartati sullo zerbino. Hanno chiamato il fabbro per aprire la porta e, niente, i suoi parenti devono essersi dimenticati di andarlo a trovare. Quando l’ho saputo mi è venuta voglia di sedermi a un tavolo e scriverti.

Adesso inarcherai il sopracciglio. Mi chiederai: «Sei così orgoglioso della disfatta verso cui ti avvii, da volermela raccontare per lettera?».

Frena, non precipitiamo conclusioni. Anche se provo simpatia per Celso, ancora non sono come lui. E le spiritosaggini di Fiore… bisogna stare al gioco; questa è una città teatrale, Shakespeare ci ha ambientato una commedia o due. Dietro il bancone, con lo strofinaccio per asciugare i bicchieri su una spalla, anche Fiorello recita una parte. E non abbiamo tutti un punto di vista limitato sulle persone che conosciamo? Che altro dovrebbe vedere di me, se non il biglietto da dieci euro che ogni sera metto sul bancone? Come può sapere che ho un lavoro? Pago un affitto, infatti. Pago le bollette. E vado a lezione. Non spesso come dovrei, ma ci provo. Provo a far funzionare le cose.

Con questa lettera volevo soltanto dirti di non preoccuparti. È vero: frequento questo posticino, in una traversa di via Venti Settembre, vicino all’università, e ho un fiuto eccezionale per gli amori impossibili, ma non passo il mio tempo a bere e fumare: di là, in una saletta appartata, c’è un tavolo da calcio balilla gratuito. È lì che passo le mie serate. Sto diventando un mago del calcio balilla, mamma! E dopo mesi di allenamento posso dirmi un ottimo giocatore d’attacco. 

Riesco ad oltrepassare il filtro di centrocampo dell’avversario e mandare la palla in attacco giocando di sponda. In attacco, poi, non solo riesco a segnare frontalmente con tutti e tre gli omini dalle principali posizioni, ma segno anche “di taglio”. Riesco, cioè, a prendere la palla con lo spigolo del piede del giocatore, a spiazzare il portiere avversario con una traiettoria diagonale e imprendibile.

Riesco anche a “fare le foto”, così si dice quando un attaccante manda la palla in gol contrastando il rinvio del portiere. Capisci la metafora, mamma? Quando il portiere rinvia, tu gli stai davanti, intercetti la palla, e questa schizza alle sue spalle: gli fai una foto. Qualche volta mi riesce perfino il retropassaggio dell’attaccante che libera al tiro il centrale di centrocampo, il tipo di gol che strappa applausi al pubblico: «Guarda che robetta, guarda che sciccherie stasera».

E allora?, dirai tu.

E allora, mamma, il calcio balilla impartisce lezioni di vita. Come il tiro con l’arco. Come il bushido. Come la pesca. Lezione numero uno, per esempio: mantieni l’iniziativa. Se lasci ad altri il controllo delle operazioni, permetti al tuo avversario di fare il suo gioco, e prima o poi segnerà.

Lezione numero due: non è colpa del tuo portiere. Tanta gente, a fine partita, non stringe la mano all’avversario. Va direttamente sulla soglia del bar, si accende una sigaretta e guarda la strada. Dove sopraggiunge l’immancabile burlone: «Perso subito, ah?».

«Colpa del portiere», borbotta lo sconfitto. Gli attaccanti, quando perdono, accusano il portiere di aver preso troppi gol. Anche dimenticando per un momento che non c’è niente da vincere o da perdere, è troppo facile dare la colpa agli altri. Il portiere, gli amici, le ragazze, i genitori. Arriva un giorno, se vuoi crescere, in cui bisogna sforzarsi di considerare l’altro lato della questione. Bisogna ammettere che ogni gol mancato ha sulla bilancia lo stesso peso di un gol subito. 

La lezione numero tre, cara mamma, è per me la più importante: tieni d’occhio la palla. Tu sai quanto sono distratto. Ho la tendenza a seguire i miei pensieri tristi, a chiudermi in me stesso. Il passato, gli errori, i fallimenti, a calcetto se ti lasci distrarre, rischi di perdere di vista la palla. I tuoi riflessi si allentano. La paura di perdere insinua il dubbio, vanifica la prontezza dell’istinto. Invece, nel calcetto, bisogna sgomberare la mente e rimanere concentrati sulla dinamica del gioco. Se ti concentri sulla dinamica del gioco, prima o poi ti troverai al posto giusto. Ci provo, ma’, cerco di tenere in pugno la partita. Tengo d’occhio la palla. E quando me la trovo tra i piedi, la butto dentro, ma’, te lo prometto.

Un racconto di Loris Righetto

Illustrazione di Elena Giorgiana Mirabelli

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