Bianca e rovente

Bianca e rovente

* Una versione differente e ridotta di questi testi è stata pubblicata nel testo collettaneo Tetrakis (Kurumuny, 2018).

Ho adesso insomma dopo tanto farneticare le metafore – mi ci volevi qui con gli occhi a scolorirsi a questo sole, qui è che dovevi stare, perché ho adesso tutti pronti sul petto tutti i come che servono. Sei come questi posti e questo è quanto. Qui, sulla strada ossuta dove il sole mi sbatte ogni mattina ho il tuo gomito accanto, la pace sembra ovunque in tutto il mondo, perché questa Lecce è tutto il mondo: che so a memoria, come te.

2

«Non sei però come casa: sei casa» – ci diciamo e ridiamo del luogo che si è diventati ormai, passo un dito sul muro, si sfarina e da sempre però è lì, è toccare il tuo mento, sollevarlo verso il giallo ombroso mio, pietra che bacia pietra.

3

La casa di Bodini è il centro della mia periferia e di là nella corte notati da nessuno cinque gatti, le ci volevi tu a questa città che soltanto a guardarla mette sete: per dare luce a bestie malate e spaventate (mi sento tutti i cinque – e tramonta: davanti a Porta Napoli).

4

Davanti a un ovunque la riconosco questa città che spogli, questa città che ora mi sembra spaiata, un po’ tua e un poco mia, che la guardo e ti guardo e apro il pacchetto di rosse, il petto pure mi si apre, davanti a un ovunque sfuma tutto e non lei: Lecce è sempre lei: spaiata o sfumata la riconoscerei, come te ieri sera tra la folla stanca di tarante davanti a cui parlavo: trovarti tra tutti era la certezza: di due occhi fissi lì su un me colonna barocca senz’ombra, che guardi e ami – perché?

5

Nei nomi siamo questi posti, nei nomi siamo Uomo e Terra, guardaci, siamo noi quello scrostarsi all’ombra delle chiese, ogni albero piantato, ogni luogo lastricato noi siamo, ci penso spesso, anche ora, che il Duomo ci fa ombra bianca, i tuoi occhi sono oggi del colore degli ulivi – e un frate ci corre accanto. 

6

Ci spostiamo verso ovest, da questo lato è il tramonto, l’alba ci è lontana, non ci riguarda, quasi. Il calare è nostro, e l’accompagnarlo fin dentro l’acqua, lo vedi il come, qui: lo vedi, mai ti ho vista sorgere io, in quel tramonto ti ho – presa di petto, onda alta di scirocco io, sole sbatacchiato tu. Posto che mai si ferma e mai crede d’esser bello davvero, bello e basta, crosta sulla ferita, bella così, riparo, questa terra sei tu, che cicatrizza. 

7

Nella terra rossa (noi, immersi, di Torre Suda) mi sento un von Aschenbach dolente e felice – nel morire nel sole di un addentrarsi nostro nella vita, di un crederci più dentro (io che fuggo da sempre, io che mi fuggo, chi lo avrebbe mai detto che è questo, anche tutto questo il Salento? Mi spazzo via un pensare: di un amare nel mare): non mi voglio così piantato in terra, non mi vorrei, ma tu, che mi passeggi i giorni, tu, chi sei? – se non questa terra stessa, se non questo posto mio stesso, tuo.

8

Il mare mai tanto blu di Gallipoli, a lungo schifo e noia, anche questa superficie è terra, guarda come mi palpita nelle vene sotto i piedi, nel passo incerto sul tuo lastrico, nel giro tra le mura sanguinose, vieni, guardi questo Malladrone scolpito e appeso, che è statuario e curvo sulla morte e ride come questo mio io sperperato – questo esser uomo che hai rispolverato polvere sulla polvere, terra viva su terra morta e poi (seme su una marea) risorta. 

9

Ci spostiamo, andiamo, torniamo, nel centro, nel nucleo bianco e ossuto e rovente. Prendere questa strada, nella luce strana che taglia tutto, dalla Porta alla Piazza, questa strada senza mai asfalto, ossuta, come prendere te, prendere con un dito le tue vertebre, la tua pietra mi asseta, la tua pietra mi mura in una casa: mai da te esco, mai torno: qui sempre sono, un Sant’Oronzo immoto (qui tramonta per ore: i pomeriggi sono un farneticare metafore, per ore).

10

Gemo il tuo nome, non mi senti. È tempo, ancora, di tornare, ma tornare in quale casa se è questo lo stare a casa? – questo luogo, pietra zitta. Gemo ancora il tuo nome, questo tuo nome che è tutto il tuo essere, il tuo essere terra, rossa o pietrosa, ossuta o ciottolosa, ovunque io poggi i passi – gemo ma non mi ascoltare, stai qui, vieni, stammi qui accanto, in questo assordante suono dal cielo, alza la testa, guarda: si fa un nero disordinato in alto, girano le rondini, violente, a un niente dai miei campanili nella foga del buio: questa città non mi potrà bastare: ospitami da te, sepolto in tutto quello che sei sempre, lasciami nella terra, appendimi come un cappotto stanco, impietrami, camminami. Fatti posto, fammi posto. Restiamo. 

Un racconto di Andrea Donaera

Illustrazione di Valallart

Lascia un commento