I panni sporchi non si lavano proprio

Sui balconi i lenzuoli svolazzano tirati dal vento, uno appresso all’altro come tramezzi di tessuto che coprono i gesti delle persone – finché un lembo si alza per una folata più forte e allora sì che nelle case ci si può vedere dentro. I capelli di Nino D’Angelo – laccati in un caschetto platino –, invece, rimangono compatti da quella notte del 2002.

Tre ragazzi incappucciati lo avevano spruzzato sulla facciata laterale della chiesa di Mugnano di Napoli per dimostrare che quella piazza poteva occuparsi d’arte pur rimanendo un’eccellenza dello spaccio. Così due occhi azzurri da scugnizzo accompagnano ogni giorno la badante di turno del signor Russo a fare la spesa alla bottega e i coniugi Esposito a dialogare col prete per risolvere la spinosa questione di loro figlio.

Negli anni, il colore acceso del murales andava sbiadendo e lasciava spazio a una fumosa patina grigia. Sotto la superficie dipinta, poi, il cemento si fendeva in sottili scrostature e dimostrava che la vita, in quel rione, si sarebbe sempre mossa tra le crepe.

I panieri intrecciati rimangono sospesi raso asfalto e raccolgono il pane caldo, mentre le voci in dialetto si uniscono in un unico accordo.

Intanto, al terzo piano della palazzina B di via della Rocca, i vecchi Esposito si parlano.

«Ma tu o ver’ fai, o Gia’? Quello – il signor Russo – la capa l’ha perduta».

«Linu, sient’a me, Luigi sta megl’ ‘e nui. Le stranezze sono per mandare i figli al manicomio».

«Quindi si finge pazzo per far uscire pazzi loro?».

«Esattamente».

«Ma che vai dicendo, si o solit’ scem’».

Lina è a ridosso del muro del salotto ed entra nella casa del signor Russo con l’orecchio infilato nel bicchiere e il bicchiere premuto contro la parete. Le dita afferrano i bordi di vetro come un rapace che tiene stretta la preda.

Dall’altra parte sente il signor Russo sbraitare contro Olga, la badante ucraina della settimana.

«O te ne vai o t’accir’», dice.

«Gia’, ma dobbiamo intervenire secondo te? Pare che la vuole uccidere a quella poveretta».

Lina immagina il suo vicino rincorrere la donna con un grosso coltello da cucina tra le mani, come aveva visto in un film.

«Sei una inciucessa, ti devi fare i fatti tuoi, hai capito?».

Dopo qualche secondo di silenzio, continua. 

«Cosa si dicono mo? Che sta succedendo?».

«E poi song io ‘a ‘nciucessa».

Da quando il loro unico figlio è partito per il nord, quei due sono rimasti soli a riempire il tempo di pettegolezzi, varechina e sartù di riso.

Un giorno il ragazzo si era avvicinato a sua madre con uno zaino sulle spalle che a Lina pareva tale e quale a quello che certi guaglioni tenevano alla trasmissione Pechino Espresso.

«Me ne vado per questa sfaccimma di mentalità, sempre a commentare e a giudicare state, voi e tutta la razza vostra», aveva detto Gennaro regolando le spalline del bagaglio per farlo aderire meglio alla schiena.

Da qualche tempo, tra i vicoli del quartiere, girava voce che quello – il figlio degli Esposito – non era più solo un femminiello. Adesso – nientedimeno – si voleva proprio fare femmina: con il seno, i capelli lunghi e tutt’ o riest’ appress’.

«Ah, quindi tu stai dicendo che i tuoi genitori sono paesani? Gesucri’», aveva risposto Lina. «Gianni, vien’ ‘cca, ascolta cosa pensa tuo figlio. Napoli fosse bigotta e Mugnano ancora chiù assai, ma vedi tu il Padre Eterno».

Dopo una breve litigata consumata sottovoce, ché i panni sporchi piuttosto che stenderli in piazza non si lavano proprio, il ragazzo era uscito e non era più tornato.

Così la coppia aveva frammentato le poche attività giornaliere in fasce orarie: la mattina si rassettava la casa, si guardava un poco di televisione, poi si preparava il pranzo e si mangiava in silenzio. Quando arrivava il pomeriggio, tutte le attenzioni si focalizzavano sulle stramberie del Signor Russo, che nei mesi avevano contribuito a distogliere l’attenzione dall’ambiguità sessuale di loro figlio. Gennaro non c’era più e le chiacchiere del paese se le era portate appresso.

Luigi Russo, invece, stava ancora là e lo avevano sentito lamentarsi, tossire fino a perdere il fiato, inveire contro chiunque andasse a trovarlo, parlare da solo, urlare, battere i pugni contro superfici solide e ridurre il vetro in mille pezzi. Poche volte lo avevano guardato in faccia e ancora meno ci avevano scambiato qualche parola, ma i suoi rumori li conoscevano nei minimi particolari.

D’improvviso un suono di nocche battute contro il legno s’insinua a scomporre la quotidianità. 

«Aiuto, aiuto, è pazzo!», urla Olga.

«Che succede?», chiede Lina lasciandola entrare.

«Signore sta cacando da finestra. No so’ riuscita a ferma’».

Gianni e Lina si guardano complici e insieme corrono alla finestra. Davanti ai loro occhi cade a picco una pioggia compatta di feci marrone e si schianta sul pavimento del giardino condominiale. Gli inquilini – nel subbuglio generale – si riuniscono sul pianerottolo e tra una mala parola e l’altra decidono che così non si può campare. È arrivato il momento di fare quella telefonata.

Qualche ora dopo tre uomini robusti in divisa tirano giù la porta e lo trascinano via mentre calcia l’aria e bestemmia i santi. Quando arrivano nel cortile – il signor Russo centrato come un bambino nel vola vola – Lina e Gianni sono già affacciati al balcone. Lui accende una sigaretta mentre lei sfila i bigodini dai capelli e li sistema accompagnando i boccoli con il palmo della mano.

«Te lo avevo detto io che era pazzo per davvero», dice Lina alzando il dito.

Lui tira una boccata e rigetta il fumo verso il cielo limpido. E mo, da dopo pranzo, che facimm’?, pensa senza parlare.

Gli operatori aprono la macchina e – prima di prendere posto – Luigi Russo si gira verso il palazzo, sgancia un braccio dalla presa, lo tende e sfila il dito medio dal pugno in direzione della coppia che è ferma a guardarlo.

«Tiè», scandisce, e poi si lascia portare via mentre le feci si induriscono sotto la luce del sole.

Un racconto di Giulia Vittorio Francomacaro

Illustrazione di Elena Giorgiana Mirabelli

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