Drappi

Il vecchio labrador nero sonnecchia in mezzo agli scatoloni. 

C’è solo questo suono, il russare costante di Bottone, e in lontananza, dalle finestre spalancate, il frinire delle cicale. Devo sbrigarmi, non ho più molto tempo, forse solo mezz’ora. Mi sono offerta di stipare tutte le vostre cose e portarle via, per fare un piacere a tua madre. Ho preso quasi tutto, tranne l’album che ho riempito negli ultimi sedici anni con le tue foto, come ogni zia che si rispetti.

Una volta mi hai chiesto come fa la macchina fotografica a catturare la luce.

Eri molto affascinato dalla luce, fin da bambino. Li chiamavi lampi di chiarezza, ma io non potevo capire.

Per te c’è sempre stato solo il nero, e poi quei lampi, quando la luce ti colpiva forte. 

I colori dovevamo inventarli. 

Sfoglio l’album, ed eccoti a sei anni con la faccia sporca di panna montata. Il bianco, diceva tua madre, è soffice, ha la consistenza della neve gelata, della seta e di tutto quello che non è ancora stato contaminato.

A tre anni ti ho mostrato le montagne, ammucchiando bustine di zucchero sul tavolo, le tue dita paffute le schiacciavano fino a trasformarle in colline, e allora ti ho spiegato che il verde è come le foglie o i campi d’erba appena tagliata. Ecco, l’odore del verde è come dentifricio alla menta, ma a te non piaceva, storcevi sempre il naso e ti lacrimavano gli occhi quando dovevi lavare i denti con il mio, nelle sere in cui tua madre ti lasciava dormire da me, tanto che alla fine ho iniziato a usarne uno diverso, e la cannella, il giallo sporco, è diventato uno dei tuoi colori preferiti.

Ieri sera ho dormito da un’amica, aveva il dentifricio alla menta, e ho capito che avevi sempre avuto ragione, perché mi sono ritrovata a lacrimare anch’io.

A sette anni ti hanno regalato Bottone, una palla di pelo che faceva disperare mia sorella, almeno i primi sei mesi, quando non aveva ancora imparato a fare i bisogni e mi ritrovavo tua madre a sbuffare con lo straccio in mano mentre tu ridacchiavi e ti lasciavi leccare tutta la faccia dal cane. Rosso, era quello il colore che associavi a Bottone, perché averlo intorno ti faceva sentire più sicuro e, contemporaneamente, più ansioso. Ti ho spiegato che ci si sente così quando si ama qualcuno.

Non le conto nemmeno le foto con Bottone, ma la mia preferita è quella in cui gli tocchi la faccia per catturare i suoi tratti, dopo che ti avevamo detto che sarebbe cresciuto nel giro di pochi mesi.

Le nostre facce restavano sempre le stesse quando le toccavi, e ti scombussolava il pensiero che il suo corpo, invece, crescesse così tanto. Tua madre, quella sera, dopo averti messo a letto, è rimasta molto tempo ad accarezzarti il viso, anche quella è fra le mie foto preferite.

Abbiamo provato a descriverti ogni colore, lo abbiamo associato a un suono, a un odore, al tatto, a qualunque cosa ci permettesse di farti vedere. Non avevo capito che eri tu a farmi vedere tutto.

Il nero lo conoscevi bene, ma volevi sapere cosa rappresentasse per me. La nostra famiglia è piena di usanze bizzarre, la più macabra di tutte viene da nonna. Era un tipo superstizioso, ad ogni lutto metteva dei drappi sugli specchi, così non ci restava imprigionata l’anima del morto. Aveva anche delle striscioline di seta nera che adagiava sugli occhi chiusi del defunto, e fino agli specchi potevo anche arrivarci, ma quella cosa di coprire degli occhi non l’ho mai capita.

Ho provato a dirti questo, che il nero era qualcosa che non capivo, qualcosa che spingeva la gente a fare cose assurde, perché come il catrame si attacca a ogni superficie mangiandosi tutto.

Quello stesso pomeriggio ti ho trovato in camera da letto, avevi scovato i drappi di nonna in fondo a un baule. Ne indossavi uno a mo’ di velo, un altro attorno al torace come una tunica. Le striscioline di seta, invece, erano diventati braccialetti fruscianti.

Sono corsa a prendere la macchina fotografica, senza smettere di ridere, e ogni volta che riguardo quella foto penso che il nero non sia più così spaventoso.

Fin dalla prima foto scattata nel reparto maternità, ho immaginato una serie di istantanee che sarebbero arrivate con gli anni.

Azzurro, come la volta in cui ci saremmo sdraiati in riva al mare e ti avrei descritto cosa succede quando la vastità sulle nostre teste incontra la vastità ai nostri piedi. 

Viola, quando avresti provato il vuoto nello stomaco al primo giro sulle montagne russe.

Arancione, come il chiasso della gita scolastica, quello dei posti in fondo all’autobus, dove succedono le cose migliori.

E poi molti colori tutti insieme, quando finalmente lei ti avrebbe chiamato per nome, e quel suono sarebbe stato l’unico capace di farti sentire più sicuro e più ansioso allo stesso tempo.

Chiudo l’album ed esco di casa. Il viale alberato scivola ai margini della mia visione periferica.

C’è caldo, e stringo più forte il volante. Il dolore è un grigio fumoso che non posso descriverti.

C’è stata luce in tutti questi anni, e il suono della tua voce, anche se non sono mai stata capace di spiegarti come fa la pellicola fotografica a catturare i colori.

C’è nero oggi, e silenzio. Mentre nessuno guarda, mi avvicino e sfilo via la striscia di stoffa scura dai tuoi occhi e ne metto una bianca. Niente deve assorbire i tuoi colori, nemmeno adesso. 

Illustrazione di Melissa Brusati

Giovanna Giordano

Giovanna nasce in padania da genitori terronici, dal nord ha imparato ad alcolizzarsi di vino, dal sud a mangiare come se non ci fosse un domani. Da piccola ha frequentato tutte le scuole cattoliche che Verona offriva, infatti poi è diventata atea. Da grande vuol far parte del fronte liberazione nani da giardino.

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