Racconto blu

Quasi mi mancava il respiro di fronte a quel mucchio di legna bruciata, coperta dall’incessante ronzio della mia solitudine distrutta per sempre. Tutto quello che volevo era scappare, rifugiarmi da qualche parte, non essere più trovato. 

E la trovai sì, quella solitudine che cercavo. Ma solo quei pochi mesi scarsi, il tempo necessario per assaporare il vuoto e poi perderlo una volta che mi ero adattato. Contemplavo questo scherzo del destino guardando gli ultimi ceppi di legna che mi ero degnato di spaccare, vedendoli gonfiarsi e poi scoppiare in scintille e tizzoni deboli mentre il fuoco consumava quel che poteva e lasciava cenere del resto. 

Era inverno, faceva freddo. La nebbia saliva dalla terra bagnata, dalle crepe nelle zolle dei duri campi non lavorati. Io mi stringevo nel cappotto troppo leggero, guardando il falò indebolirsi nella foschia. Di fronte a me, la torre della mia sconfitta e intorno a me, ovunque guardassi, un infinito blu che mi inghiottiva. 

Cominciò tutto il giorno in cui nacqui. Ovviamente, non me ne accorsi subito. Nessuno se ne accorse. Ci volle qualche anno per capire: quando con gli altri bambini parlavamo dei cartoni visti alla televisione, o dei videogiochi sui nostri piccoli game boy. Quando indicavo i lampioni alla mamma, parlandole della loro luce nella notte. 

Ci volle del tempo, molte correzioni, prima di arrivare a capire che gli altri non vedevano quello che vedevo io. Ci furono visite, neurologhi, pediatri, oculisti, fino ad arrivare alla diagnosi: sinestesia. Dissero di non preoccuparsi e in effetti non mi pesò mai molto, pure se i miei occhi non potevano condividere il mondo con nessun altro. 

Con il tempo, approfondii la mia condizione, che si fece più invadente. Capii con precisione cosa accadeva ai miei sensi: per qualche conformazione tutta mia, percepivo l’elettricità, o meglio il suo suono, come blu. Blu di ogni tinta, a seconda dell’intensità della fonte di elettricità. E ovviamente, e la cosa mi faceva molto ridere, percepivo anche il cosiddetto “blu elettrico”. 

Entro i venticinque anni, più o meno quando entrai ufficialmente nel mondo del lavoro, il mio campo visivo era totalmente invaso dal colore blu. 

Abitavo una città di luci e onde. La mia vita proseguiva obnubilata. Le tinte del mio mondo erano diventate pareti di una prigione, e mi schiacciavano. Niente era più mio, tutto scorreva e io non ero proprietario di niente. Andavo semplicemente avanti, malaticcio e desolato. 

Un piccolo appartamento, un piccolo lavoro, una piccola vita. Quello avevo, fino a quando non mi capitò per le mani un documento catastale. E allora si aprì una breccia. 

Non era molto. Solo un piccolo rustico, in attesa di diventare rudere entro un paio di anni. Il terreno in cui sorgeva non era nulla di rimarcabile: terra argillosa, a ridosso di una collina tutta sassi che nessuno si degnò mai di trasformare in un vigneto. E tutto intorno, campi piani fino al cuore della pianura padana. 

Poteva essere di più, sinceramente. Un’eredità dimenticata, che nemmeno sapevo essere mia di diritto. Il lascito di un ramo della famiglia mai conosciuto. Un cumulo di rocce e polvere impilate. Ma per la prima volta, mi scappò da sorridere, lì in mezzo al niente solitario, mentre guardavo le ombre blu lasciare il mio mondo e vedevo il vivo e pieno colore della terra secca. 

Feci lì la mia casa, vivevo di poco e mi mantenevo come potevo. La collina offriva castagne selvatiche, provai a mettere su un magrissimo orto, il resto lo compravo con i miei risparmi. La luce elettrica non arrivava e le bollette non erano una preoccupazione. 

I soldi sarebbero finiti, ma nel frattempo avrei affinato le mie doti contadine. Quella era anche una zona di tartufi, forse avrei preso un cane per cercarli. Le incertezze c’erano, ma non mi importava: dormivo bene. E poi un giorno mi svegliai di buon’ora e vidi muoversi nel profondo della nebbia qualcosa di enorme, che giorno dopo giorno si avvicinava. 

Ci vollero circa un paio di mesi. L’inverno arrivava piano e l’orto si infiacchiva. Raccoglievo gli ultimi cavoli, che mi erano venuti bene. Guardavo le loro foglie, di un verde stinto ma potente, un qualcosa che trasmetteva resilienza. Tenevo i frutti del mio lavoro tra le mani, mentre li guardavo scivolare nuovamente nel blu. Sopra di me torreggiava un traliccio di una nuova linea per l’alta tensione. 

Il freddo aveva ucciso l’orto, prima che io potessi raccogliere le ultime verdure. Le foglie aperte e spaccate dalla brina marcivano congelate, coperte dai minuscoli cristalli di ghiaccio come piccole statue contorte. 

Io me ne stavo seduto sul portico del mio rudere a guardare il traliccio che mi stavano costruendo a nemmeno cento metri dalla casa. Il suo ronzio, fortissimo, incessante, si propagava senza fine dalle sue cime fredde e altissime che si perdevano nel cielo nebuloso e si lasciavano vedere solo grazie alle rosse luci segnalatrici. 

Nessuno spiegò nulla. Non credo ci fossero leggi contro l’inquinamento acustico. Un funzionario del comune più vicino mi parlò di una compensazione, una cifra buona per acquistare un altro posto dove vivere. Persi il diritto ad averla per circa una decina di metri. Dieci virgola otto, disse il perito. Non gli voglio male, per questo. 

Tutto quello che volevo era scappare, rifugiarmi da qualche parte, non essere più trovato. Ma quella prigione che mi portavo dentro mi aveva trovato anche lì, con il suo frinire statico. 

Il fuoco si era mangiato tutto. In mezzo alle braci, un solo ceppo infuocato. Chiusi gli occhi mentre le fiamme consumavano la casa. In ogni caso, non credo sarei mai stato capace di tornare.

Illustrazione di Elisa Invy Inverardi

Guido Zanetti

Guido nasce a Genova nel 1992. Cresce a Pavia, dove studia filosofia per tre anni e tre quarti. Corre a Torino, dove studia sceneggiatura alla Scuola Holden.

One thought on “Racconto blu

  1. Racconto bellissimo e coinvolgente, si “sente” il personaggio.
    Tra l’ altro ho imparato cosa sia la sinestesia in senso neurologico.
    Complimenti all’ autore.

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