Pantone 15-2217

  • Ratko, – ripeto – c’è una cosa che devi sapere di me.  

Divento nervosa quando la gente non mi considera. Ratko si infila un’unghia nel crinale sottile che demarca lo spazio chiaro della narice da quello buio e anfrattato, il che mi farebbe dire che si sta scaccolando. Ma rimane un pelino fuori, quindi no. Rallenta all’incrocio, smanovella il finestrino e finalmente si volge, dandomi la massima attenzione consentita dall’attesa semaforica. È sudato intorno al collo e sotto alle ascelle, ma la fronte è asciutta. 

  • Sentiamola.
  • Prima di imbarcarti in questa avventura che è vivere con me. Forse, oddio, avrei dovuto dirtelo prima, magari. 
  • Eh, già è tardi, mi pare. La mia scelta l’ho fatta, anzi, insieme l’abbiamo fatta. Non si torna indietro. 

E indica le macchie umide sul mio vestito giallo, lì dov’è arrivato il ginger lemon che Annalisa mi ha scagliato addosso. Oddio, quanto era incazzata. La chiazza verrà via? Lo volevo restituire, questo. 

Prendo fiato, smetto di torturarmi il collo e getto fuori: – C’è un colore che mi fa svenire. 

  • In che senso, svenire. Che ti piace tanto?
  • No, proprio svenire. Lo ha scoperto un dottore amico di papà. Ha iniziato a succedere da ragazzina, avrò avuto sedici diciassette anni. Ogni tanto, puf, mi spengo.  Quando vedo un colore. 
  • E che colore è? 

 Ratko ora è attento, mi guarda con un occhio semichiuso, non capisco se per via del sole o del fatto che sta cercando di capire se io sia veramente così suonata come sembro. Tutti sono attratti da una manic pixie dream girl, certo all’inizio, ma presto le mie peculiarità – che i più educati chiamano fisime o stranezze e gli stronzi non si vergognano a definire manie, ticchi, uzzoli – iniziano a sembrare abbastanza onerose. Forse la decisione presa d’impeto sta scemando, il Negroni sta scemando; sta già valutando quanto tempo è passato dalla scenata al Pastis, e verifica mentalmente gli scenari. Forse se torna da lei ora, si prostra, lei se lo riprende? 

  • Che colore? – mi riacciuffa Ratko. 
  • Il colore, se te lo dico, poi tu puoi farmi svenire. 

Ratko ride. – Mi avevi detto – traffica nello scomparto di sinistra, si accende una sigaretta – mi avevi detto che ero io a farti svenire. 

Già, una volta era successo mentre ero con lui. 

  • È il rosa. Il dottore ha detto che a tante persone capita per altri motivi. Quando sentono una particolare armonia di toni, o un profumo ben preciso, che ricorda loro qualcosa. Una specie di sindrome di Stendhal. Per me è un colore: lo vedo, e svengo. 

Poi ci penso un po’, e correggo: – Un rosa, non il rosa. Non Conch Shell, non Hot Pink, nemmeno Candy, né Millennial Pink o Quartz Rose… – faccio un bel respiro – Aurora Pink, Pantone 15-2217. 

  • Ammazza, te ne intendi di colori, eh? E non c’è cura?
  • Non che io sappia. Non che lui sappia. Però posso portare gli occhiali, vedi.

Mi tolgo i miei occhiali rosa. Con questi il mondo lo vedo monochromo.

  • E allora non è più facile svenire? – Ratko ancora crede che lo prenda per il culo. 
  • No, perché i colori si sovrappongono. Con questi occhiali la tonalità che mi manda in pappa i neuroni non posso proprio vederla. Fossero verdi, o gialli potrebbe essere che un particolare colore, sopra a quello degli occhiali… ma scusa non li hai fatti i colori primari all’asilo?
  • E come mai proprio il rosa, scusa… quel rosa. 
  • Secondo Valdiserri – e chi è Valdiserri – il dottore, no? Il neuropsichiatra. Un ipno-terapista. Quando è riuscito a riprodurre l’episodio e trovare il colore, il tutto è legato a un ricordo che ho. Un viaggio che ho fatto, in Islanda. Con i miei genitori, e un amico. 
  • Un amico.
  • Già. Abbiamo dormito in spiaggia, in tenda. Solo io e Milo.
  • Ma a che età scusa?
  • Ma che ti frega. I miei genitori non sono bacchettoni. Comunque mi sono svegliata prima dell’alba, ho guardato il mare, e il sole che nasceva. Il cielo è diventato da nero a blu, a verde, turchese e infine rosa. Si scioglieva una sfumatura dopo l’altra in minuti, forse ore. Faceva freddissimo. Piano piano il mondo diventava sempre più rosa, e io fissavo l’orizzonte, col terrore di perdermi l’istante in cui il primo bozzolo di luce vera dall’aldilà sarebbe arrivato nel nostro mondo. Volevo chiamare Milo ma ero come paralizzata. Beatitudine liquida che mi colava negli occhi. So che non si può spiegare. 
  • E poi che è successo? – Ratko ora è interessato, il sorrisetto sta sparendo dal suo viso. Mi crede? O vuole solo concludere?
  • Mi sono svegliata con i miei genitori e Milo attorno a me, era passato un sacco di tempo. Il dottore dice che lì si è creato un lisergoma nei miei pattern cerebrali. Io non so cosa significhi e nemmeno lui, perché dice che grazie a me, con gli studi che sta facendo, vincerà il Nobel di certo. Ma a me non importa, so solo che ogni volta che succede, quando mi risveglio, sto bene, come fossi tornata da un luogo speciale. Da un viaggio di giorni, in lande sperdute e straniere che posso comunque sentire patria. 

Sospiro, sollevata, ora che gliel’ho detto e non se n’è andato. 

  • Per cui questo colore, conoscerlo, significa che ti sto facendo entrare in una parte molto segreta e importante della mia psiche. Ti sto dando le mie chiavi di casa. 

Ratko annuisce. Il semaforo è diventato verde, il traffico è ripartito, e non mi ascolta più. 

Illustrazione di Marta Perroni

Federico Zagni

Federico è un ingegnere a cui piace smontare le storie per capire come sono fatte, e rimontarle per capire come funziona la vita. Emiliano, millennial per un pelo, cerca di imparare una parola nuova ogni giorno, ma è una fatica sesquipedale. Nelle sue bio un’informazione è sempre inventata, inutile o inopportuna.

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