Adulte

Il bar è a Brera, in via dei Fiori Chiari 23. È primavera, il dodici di maggio. Posso aspettarti fuori, seduta a un tavolino nel dehor, anche alle 19.30. 

Intravedo la tua sagoma all’orizzonte. Non sei mai stata puntuale, e nemmeno io. Questa volta invece sì.

Cammini, e mi basta guardarti un secondo per riconoscere la tua andatura. L’ho sempre trovata incerta, esitante, tenera. Mi punti. Mi hai intercettata anche tu. Avanzi lungo la via principale a passo lento. Provieni, se niente è cambiato, da Città Studi, precisamente da Via Zanoia 16. Hai impiegato quaranta minuti per raggiungermi. Devi essere scesa dalla 61 a Lanza, per poi fare a piedi gli ultimi metri che ti separavano dal bar, lo stesso dove ci siamo viste l’ultima volta, un anno e mezzo fa. L’ho scelto perché lo trovo simbolico, riprendere dal luogo in cui ci siamo interrotte. E poi perché voglio farti male, ricordarti, attraverso le strade, la vita che abbiamo perduto.

In questi mesi non ho scritto nemmeno una parola. Non ne ho più avuto voglia. La scrittura, dopotutto, è sempre stata una cosa nostra. Il laccio che ci teneva strette. Anche leggere è diventato un gesto che compio con svogliatezza e soltanto forzandomi, per non rinnegare una passione del passato. Ho scoperto che a nessuno interessa ascoltarmi e io, sinceramente, non saprei a chi parlare dei libri che ho letto, per commentarli, per declamare a voce alta i passaggi che ho segnato a matita e poi dire: ascolta qui, senti che bello. Forse è per questo che mi sei mancata così tanto. La mia vita si gonfiava e prendeva forma solo se potevo condividerla con te. Per molto tempo, da quando te ne sei andata, mi è sembrata soltanto un palloncino floscio, ultimo ricordo di una festa a cui mi ero divertita tantissimo. 

E poi chi aveva più bisogno di ambizioni? Stavo per diventare madre, e questa cosa qui tu non la potrai mai capire, ma quando stai per diventare madre tutto il resto passa in secondo piano. Tutto, compresa te.

So che ti stupirai quando te lo dirò, quando ammetterò che non sto più scrivendo, che non sto più leggendo, che non guardo più film, e nemmeno le serie, che non metto piede a teatro, e figuriamoci a un concerto, insomma, che non faccio tutto quello che, fino a un anno e mezzo fa, consideravo essenziale per vivere. 

Voglio vedere la tua faccia quando ti darò la conferma di quello che mi hai augurato l’ultima volta in cui abbiamo parlato: sì, sono diventata una persona qualunque. Una persona priva di colore, senza sfumature, senza ombre. Una pagina vuota. Uno scontrino sbiadito. Un biglietto del tram lasciato ad affievolirsi in fondo a una borsa, dove si scorge, appena e per caso, la traccia di qualcosa che prima assomigliava a me stessa. Bianco. 

Non ho niente se non mia figlia e il mio compagno. Vivo per loro, per il pilates del giovedì, per il volantino con le offerte dell’Esselunga, per la domenica tutti insieme. Sì, sono io, quel palloncino sgonfiato. Non c’è più spazio per altro. Il centro dei miei pensieri è questa esistenza domestica, fatta delle famose piccole gioie che fanno la differenza. Anche questo non vedo l’ora di dirtelo: è vero, sono le piccole gioie che fanno la differenza. E l’ho capito soltanto quando non riuscivo a godermele, perché ero troppo impegnata a pensare a te. 

Ti ho pensata sempre, ma non so se te lo dirò. Non è per non darti la soddisfazione di sentirti importante: sei importante, e lo sai. È che mi vergogno. Perché ti ho pensata sempre, appunto, anche quando non avrei dovuto. Anche quando stavano accadendo le cose peggiori (per un lungo mese abbiamo creduto che la bambina non stesse bene, siamo stati molto preoccupati). Pensavo semplicemente a te. Un pensiero vuoto, fisso, insignificante. Un pensiero che non prendeva direzione e che non si sviluppava in nulla. Un pensiero orizzontale e immobile, sterile, paralizzante, senza una voce e senza un volto. C’era soltanto la tua presenza, che galleggiava nella mia vita. Era fatta di una sostanza gassosa, che riempiva tutti i vuoti e tutti gli spazi. Credo fosse l’inquietudine che mi accompagnava di continuo e che gli altri scambiavano, naturalmente, per apprensione, per spavento, per insicurezza, per ormoni. 

Quando la sera mi infilavo sotto le coperte, e sospiravo forte, e allora Ale mi chiedeva cos’hai, sta scalciando?, non avrei mai potuto rispondere che in realtà era a te che stavo pensando.

Quando mio padre ha cominciato la chemio (anche per questo siamo stati molto preoccupati), e io non mangiavo, tenevo sempre il muso appeso, ero assente, mi perdevo con lo sguardo nel vuoto, non avrei mai potuto rispondere che in realtà era a te che stavo pensando. Mi sentivo in colpa per quei pensieri sconvenienti, che niente, nemmeno gli eventi più gravi, riuscivano a spodestare.

So bene che vita è stata la tua. Mentre io mi sigillavo in una riservatezza silenziosa, tu non facevi altro che sfoggiare le tue giornate sfavillanti su Instagram: il lavoro, i nuovi amici, gli aperitivi, le ultime letture, le canzoni, i fine settimana in montagna. Le tue riflessioni, scritte con la vena ironica e polemica che ti ha sempre contraddistinto. Non bloccarmi mi è sembrata una scelta crudele e al tempo stesso dolcissima: forse volevi sbattermi in faccia quanto stessi bene senza di me; forse era il tuo modo virtuale per dirmi che la porta che ci separava era ancora aperta. 

Hai continuato a essere quello che sei sempre stata, quello che un tempo ero anche io: giovane,  desiderabile, piena di possibilità. Allegra, spensierata, brillante. Sempre in procinto di vivere qualcosa di unico, qualcosa in grado di rendere la vita speciale. Lo so, è l’effetto dei social. Un tempo ci saremmo dette, ridendo sul parquet, mezze fatte per una canna d’erba, che era tutta apparenza: chi sembra felice su Instagram, è uno sfigato nella vita vera. Avremmo giudicato i profili degli altri, scovando le contraddizioni e smascherandone le falsità. Ci saremmo assicurate che noi non l’avremmo mai fatto: io e te eravamo diverse. Non desideravamo una vita qualunque. Non desideravamo sbiadire.

Sei arrivata. Ora mi saluti con un abbraccio. Mi stringi. Mi dici che sto bene e sembri sincera. Ricambio lo stesso complimento e sono sincera anche io, spero che tu lo senta. Hai cambiato profumo e modo di truccarti. Forse hai cambiato anche colore di capelli: credo che tu li abbia leggermente schiariti, ma potrei sbagliarmi, forse è il sole che li ha resi più biondi. Sono felice che ci siano questi piccoli dettagli a testimoniarmi che qualcosa è diverso da prima, altrimenti mi lascerei andare e sarebbe troppo semplice riprendere la confidenza interrotta. 

Ecco che inizi a parlare, convenevoli, domande, principalmente sulla bambina. Ti mostro le sue foto dal telefono, anche se mi ero ripromessa di non farlo, per non sembrarti una di quelle mamme che. Fai una battuta sul pigiama che avevo addosso il giorno dopo il parto, e la conversazione prende subito un altro passo. Come se, solo attraverso una parola, fossi riuscita ad accorciare la distanza tra noi. 

Poi mi dici che la bambina è molto bella ed è vero: Anna è bellissima. Somiglia ad Ale, lo dicono tutti, ma tu non me lo fai notare. Ti scappa che vorresti conoscerla e io ti assicuro che vi incontrerete presto. Cerco di ricordare perché sono arrabbiata con te, ma non mi viene in mente nulla. Provo ancora, mi impegno a rintracciare il motivo che mi ha portato ad odiarti strenuamente, per un anno e mezzo. Niente. Non c’è nulla. Mi piacerebbe che fosse qualcosa di più significativo a riavvicinarci e invece basta la tua presenza, la tua voce che ordina, sicura, al cameriere che passa di corsa, due prosecchi. E adesso che mi sorridi, finalmente lo capisco: quel palloncino sgonfio, dimenticato all’angolo dopo una festa, non è più la mia vita.

Un racconto di Gianmarco De Chiara

Jolanda Di Virgilio

La sua vita è un pendolo che oscilla tra la nostalgia di casa e il terrore di tornarci, la scelta di essere vegetariana e la passione per il cibo spazzatura, l'amore per Kieslowskij e l'esaltazione per la nuova stagione di TheLady. Nell'attesa che le venga diagnosticato il disturbo bipolare, legge e guarda serie tv.

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