Promemoria

«Alexa, promemoria: devo suicidarmi alle diciannove.»

«Ok. Te lo ricorderò alle diciannove.»

Perfetto, Alexa è sistemata. Ora apro il cellulare e imposto l’assistente di Google. Il microfono si è rotto e devo scriverlo a mano. “Suicidio, ore 19”. Ok. Copio e incollo nell’agenda del telefono, perché non si sa mai. Benissimo. Fatto.

Impostiamo anche la pendola, dai, per stare più sicuri. Ha una leva così vecchia che mi spaccherò le dita a caricarla. Oh, mamma mia, che fatica. Proprio non si vuole muovere. Piego un ginocchio e spingo con il tallone. Ecco, finalmente ce l’ho fatta.

Passiamo al vecchio orologio a cucù di mio nonno. Non funzionerà, ne sono quasi sicuro, perché è tantissimo tempo che non viene più azionato, ma poniamo il caso che tutto il resto si blocchi e questo no… A livello di probabilità non è neppure calcolabile una roba del genere. Eppure il solo fatto che possa capitare mi impone di aggiungere anche lui.

Ok, casa è a posto.

Adesso viene la parte più complicata. Esco dal mio appartamento e attraverso il pianerottolo, quindi busso alla porta in mogano scuro. Viene ad aprirmi la signora Barilleri, la vicina con le mani ossute e le rughe sul volto profonde come trincee della prima guerra mondiale, che la fanno sembrare vecchia da sempre. Nata vecchia. Mi immagino questo ginecologo che fa partorire la madre e piange lui al posto della bambina.

«Signora» dico, con un tono abbastanza deciso. Ho bisogno che mi ascolti con estrema attenzione. Se l’avessi avuto, avrei portato un tubo di plastica e avrei messo a un’estremità le sue vecchie orecchie spellate e all’altra la mia bocca, per essere sicuro di farle sentire ogni singola parola.

«Mi dica» risponde. La voce è flebile e venata di paura. Anche lo stipite è stato discostato di qualche centimetro, lo spazio esatto che serve alla sua faccia allungata. Non un millimetro di più.

A me non interessa che abbia paura. Pretendo solo che mi ascolti.

«Mi deve ricordare una cosa alle diciannove.»

«Io… In che senso? Sa, sono molto anziana e…»

Sta già inventando scuse. Non sa in nessun modo cosa io le voglia chiedere. Non immagina nemmeno lontanamente e si sta defilando. Può contare con le dita i giorni che la separano dalla bara. La sua esistenza sta per spegnersi in modo così anonimo, che l’universo si è già pentito di averle concesso un po’ di spazio prezioso e si permette di essere pigra.

«Mi ricordi che devo suicidarmi alle diciannove di questa sera, per cortesia.»

Ho pronunciato lentamente ogni parola con dei movimenti ampi e innaturali della bocca. Così se l’udito la tradisce, si può aiutare con la vista e leggere il labiale.

Dal suo cambio di espressione capisco che ha afferrato il concetto, perché ora non c’è più solo paura, ma anche un poco convinto compatimento in quei piccoli occhi infossati.

«Credo di aver capito male, mi scusi» dice. La voce è così bassa che sembra venire dai piedi e non dalle corde vocali.

Ha capito eccome. Spera di aver capito male, non crede. Ha sbagliato verbo, mia cara signora Barilleri.

«Alle diciannove. Viene a bussare alla mia porta. E io mi sparo in testa. Stop. Niente di più semplice.»

Gli occhi si fanno ancora più piccoli. La paura ha dato un calcio in culo al compatimento ed è tornata a farla da padrone su quel volto più secco del mar Caspio.

«Non… Mi scusi.»

Sta chiudendo la porta. Questa donna deve fare tre passi e colpire con le nocche una superficie legnosa e si rifiuta. Vorrei vomitarle sulle scarpe per quanto mi fa schifo il suo patetico egoismo.

«Attilio» dico e il movimento lento e inesorabile dello stipite si blocca.

Il cane della signora si chiama Attilio. Un piccolo incrocio fra non so quali razze e con un nome da essere umano. Odio chi dà i nomi da esseri umani ai cani. Perché si rischia che un giorno di questi qualche stupido genitore si senta autorizzato a chiamare Birillo il proprio figlio. O Flipper.

«Cosa vuole dal mio Attilio?»

La voce si è fatta lamentosa. La paura sta lasciando spazio all’isterismo e non mi va di perdere tempo a calmare questa donna inutile. Ho bisogno solo che venga alle diciannove a bussare alla mia porta.

«Se lei alle sette di questa sera non verrà, io non mi ucciderò e sarò molto arrabbiato, perché avevo letteralmente un unico appuntamento e l’ho saltato per colpa sua. Questo sa cosa significa? Che sarò ancora vivo e sarò estremamente contrariato. E come potrò fare in modo che lei capisca che sta sprecando la sua vita a tal punto che le pesano tre passi e due pugnetti su una porta? Uccidendo il suo cane e smembrandolo in tanti piccoli pezzetti. Ciò che dovrebbe fare lei con le catene immaginarie che la legano alla poltrona del suo salotto, saturo di polvere e rimpianti. Quindi ora le ripeto la domanda: lei verrà o no questa sera a bussare alla mia porta?»

«Verrò.»

«Benissimo. Sapevo che potevo contare su di lei.»

Mi volto e torno dentro casa.

Mentre sto afferrando la maniglia per aprire la porta, la signora Barilleri commette un errore madornale, imperdonabile. Deve essere la morale cristiana. O quella cazzata che l’uomo è un animale sociale che Aristotele ha detto quando sulla Terra c’erano dieci persone e sette stavano con lui in Grecia, a farsi domande sull’esistenza.

«Perché si vuole uccidere? È così giovane» mi chiede.

Le ho appena detto che sarei capace di trasformare il suo cane in un puzzle da mille pezzi e lei prova pena per me. Gli antropologi vanno nei posti più sperduti del mondo a cercare le tribù che vivono ancora seguendo modelli arcaici, quando solo con la signora Barilleri potrebbero scrivere almeno tre libri.

«Mi voglio uccidere perché sono povero.»

«Povero? Ma…»

Ma cosa? Signora Barilleri? Sicuramente ci sarà un lavoro dignitoso per me là fuori? Il lavoro giusto, che quando lo trovi smetti davvero di lavorare, perché lo ami? Forse. Anzi, quasi sicuramente. Ma non potrò mai davvero essere ricco come quelli che seguo su Instagram. In nessun modo. Quelli nati ricchi, intendo. Nati in famiglie che sono ricche da secoli. I ricchi per nascita, usciti da una vagina ricca, fecondata a suo tempo da un pene ricco. Quelli che nelle storie un giorno si localizzano a Taormina e il giorno dopo a Montecarlo. Quelli che mangiano sempre pesce. Quelli di cui si lamentava anche mio padre e prima di lui mio nonno. Ma loro l’agio potevano solo immaginarlo. Sapevano che la loro era una vita di merda, ma la vita sfavillante dei ricchi era lontana dai loro occhi e quindi lontana dal loro cuore. Io vedo ogni giorno, ogni ora, ogni secondo aperitivi. Vedo sorrisi. Vedo felicità vera. Hai voglia a dire che è tutto finto, che quelli sono momenti di vita di persone che lavorano, soffrono, piangono. Sono tanti. Troppi momenti. Riempiono giornate intere e, a meno che le loro durino venticinque ore, non capisco dove trovino il tempo per piangere.

«Ma cosa, signora Barilleri?»

«Adesso c’è anche… Come si chiama? Il reddito… Ti danno loro i soldi.»

«Il reddito di cittadinanza?»

«Esatto. Quello.»

La signora ha un’espressione bonaria sul volto ora. È certa di avermi convinto a desistere. Come ho fatto a non pensare al reddito di cittadinanza? A compilare una richiesta online in cui faccio sapere allo Stato che sono un fallito, con il bisogno di una paghetta? Un lurido pigro che apre gli occhi la mattina e chiede i soldi, come un gatto che si avvicina al suo padrone e fa le fusa per avere i croccantini e tornare a sonnecchiare. Mi voglio uccidere perché odio la mia condizione e lei pensa di aver risolto la faccenda: consigliandomi di applicare una manovra che sottolinei la mia povertà con uno di quegli evidenziatori giallo brillante, dalla punta spessa.

«Purtroppo non è ciò che mi serve. Venga alle diciannove esatte. Basterà bussare due volte. Al resto penserò io.»

Il cane Attilio esce all’improvviso, passando tra le caviglie della signora Barilleri e mi viene incontro, facendomi le feste.

Il mio sguardo e quello della vicina si incontrano per un’ultima volta.

Il suo sembra dire “Come può uccidere una creatura così buona e indifesa?”

Il mio dice chiaramente “Se sarà necessario lo farò, senza neppure pensarci un attimo.”

Quindi do una carezza sulla testa al cane e rientro nel mio appartamento.

Riesco a vedere con fatica ciò che sta succedendo in casa mia.

Tante sono le lacrime che mi inondano gli occhi.

Ho urlato, distrutto e riso in questo preciso ordine.

Gli agenti di polizia sono entrati mentre iniziavo a ridere.

A essere precisi hanno prima bussato, quindi gridato, quindi bussato più forte e infine hanno buttato giù la porta.

Evidentemente li ho spiazzati.

Pensavano di trovarsi davanti un cadavere ancora caldo con il sottofondo di sveglie, rintocchi e vibrazioni di cellulare.

Invece si sono trovati davanti un uomo vivo che ride fino a tossire con il sottofondo di sveglie, rintocchi e vibrazioni di cellulare.

«Lei è il signor Ettore Corti?» chiede uno dei poliziotti, mentre il collega si avvicina con passo incerto al mio dispositivo Alexa e osserva con sguardo curioso il coltello da cucina.

«Sì, sono io» dico fra le risate, quindi con gli indici cerco di asciugare le lacrime.

«Abbiamo ricevuto una segnalazione per tentato suicidio dalla sua vicina.»

«Immaginavo.»

Sapevo che la signora Barilleri mi avrebbe tradito. La sua morale cattolica è stata più forte dell’eventuale lutto per il povero Attilio. Chissà che sostanza metteranno nelle ostie per la comunione. È impossibile avere un’abnegazione simile senza un aiutino. Mi rifiuto di crederlo.

«Perché?» dice il secondo agente. Sta indicando Alexa.

«Perché avevo impostato un promemoria. Dovevo suicidarmi alle diciannove. Ma quell’affare ha capito “lucidarmi”. Prima mi sono arrabbiato, poi ho iniziato a ridere per la stupidità della cosa e in quel momento siete entrati voi.»

«Ci segua» replica quello immediatamente. A lui la cosa non fa ridere nemmeno un po’.

Io mi alzo e faccio come dicono. Volevo uccidermi per eliminare un problema, figuriamoci se ora, che per caso sono ancora vivo, ne creo ulteriori.

Quando passiamo sul pianerottolo, la spia è lì sulla sua porta, a guardare cosa succede.

Tira un sospiro di sollievo, mentre le cammino davanti.

Chissà che gusto c’è a salvare qualcuno dal suicidio, perpetuare un tormento oltre il suo tempo massimo, come un boia che tenga l’ascia sospesa sul collo di un condannato e continui a saggiare il punto migliore dove colpire.

Una GIF con lo stesso breve video in loop, sempre identico a sé stesso.

Un racconto di Mattia Grossi

Illustrazione di Alessandra Luciani

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