Dolore cosmico

Un denso fluido d’energia attraversa gli squarci sulla superficie del Sole, attratto da una forza ordinatrice che anela immobilità e pesantezza. Nelle profondità magmatiche gli atomi lottano per conservare loro stessi ma solo pochi ci riescono. I fotoni schizzano via dalle esplosioni solari e raggiungono la Terra che ha piegato il suo asse all’indietro come un cranio che preferisca guardare le stelle ammarate nel nero. L’emisfero boreale viene ripescato dallo stato di sovrapposizione in cui tutto ciò che è possibile, su qualche livello, è. L’alba si rinnova infinite volte, una per ogni frazione di tempo e spazio. E allora ecco i boschi che sono macchie, brandelli strappati di una veste che sta su per miracolo e non copre la carne secca e nera, lasciata a maggese, né il mosaico irregolare dei campi arati e coltivati, incisi coi marchi della volontà umana che banchetta su ogni cosa. Al centro di quel panorama c’è un piccolo castello merlato, un’ancestrale corona di pietra piantata sul cucuzzolo dell’orizzonte visto dalla valle.

Lì, steso sul letto di una camera rivolta a est, un vecchio apre occhi che sono paludi. Il disco fiammeggia dentro la finestra spalancata, una moneta incandescente che emerge da una feritoia al di là dei cipressi e del mondo intero. Immagina che quello si blocchi nel cielo frantumandosi per l’energia cinetica della frenata, disperdendo le proprie schegge di vetro cinabro nell’universo, condannando la terra ad affrontare il freddo che precede una morte senza resurrezione. Da tempo trova troppo giovamento crogiolandosi in fantasie apocalittiche, ne è consapevole e se ne vergogna. Lascia cadere il braccio sul materasso e preme il pulsante del campanello.

Fiorenzo si affaccia alla porta. «Buongiorno, signore. Volete che vi chiuda la finestra?»

Il vecchio accarezza l’aria col mento.

«Come vi sentite, stamattina?» gli domanda il maggiordomo accostando le enormi imposte e cancellando il cielo rosa e arancione.

«Come se non fossi ancora morto», risponde venendo ingoiato dalla penombra.

Fiorenzo si muove senza incertezze verso l’interruttore, accende la luce e si avvicina al letto. «Ma certo che siete vivo, siete il più vivo di tutti», afferma controllando il livello della soluzione lipidica nella flebo, quindi chiude la valvola sul braccio e inizia a manovrare per sostituirla col flacone di glucosata. «Avete dolore?»

«Basta morfina», dice con un sussurro.

Fiorenzo butta un occhio ai sacchetti di plastica che raccolgono le deiezioni e svuotano quel corpo eroso: entrambi sono pieni neanche per metà, le feci sono immerse nel sangue nero che ha lasciato traccia anche nelle urine, dove fluttua come l’ombra di un corallo. «Tra un po’ sarà qui l’infermiera e direte a lei. Avete bisogno d’altro?»

«No».

«Vi lascio la luce accesa?»

«No».

Fiorenzo si congeda con un inchino, spegne la luce e chiude la porta.

L’infermiera lo guarda con espressione bovina. «Cosa?»

«Non voglio la morfina», ripete, e la serietà delle sue parole è nuovamente non fraintendibile.

«Ma… io non ho altro. Dovremmo sentire il parere del medico».

«Non voglio niente. Voglio essere lucido».

L’infermiera si massaggia il doppio mento e la nuca con un movimento unico in doppia direzione. «Non saprei, forse l’ossicodone ha un potere analgesico inferiore però è meno narcotizzante, ma lei prende la morfina da troppo… serve il parere del medico. Se volete…»

«Non voglio niente».

«In che senso?»

«Nel senso che la vita è mia e decido io come morire!»

L’infermiera guarda verso la porta come per cercare un aiuto in Fiorenzo, poi torna sugli occhi andati a male del vecchio, gialli e invasi di fibrille rosse, eppure svegli come non lo erano da giorni. «Va bene. Lo dirò al medico».

«Cavalier Polverosi, buongiorno!» esclama il dottore.

Il vecchio trova odiosa e inappropriata quell’esibizione di vitalità.

Il dottore si fa dappresso. «Come vi trovate?» domanda poggiando a terra la valigetta e ammorbidendo l’entusiasmo del tono.

«Trovare?»

«Sì, come va?»

Il vecchio guarda da un’altra parte.

Il dottore gli prende il polso. «Il battito va bene, non preoccupatevi». Gli apre il pigiama e gli appoggia lo stetoscopio sul petto per amplificare i flebili suoni che provengono dalle caverne e dai cunicoli scavati nella gabbia d’ossa. «Respirate».

Il vecchio fa un respiro profondo che gli fa prudere la gola e tossisce senza schermarsi con la mano. Un pezzo di catarro vola sulla spalla del medico.

«Ops», dice quello mantenendo il sorriso, poi prende un pezzo di carta dal comodino e si pulisce.

Il vecchio non dà segno di preoccuparsi di niente.

«Non vi preoccupate», ci tiene comunque a rassicurarlo il medico. «Piuttosto, non fate preoccupare me. Cos’è questa storia che non volete la morfina?»

Il vecchio chiude gli occhi e stringe i denti per una fitta improvvisa alla pancia. «Se dolore deve essere, che dolore sia».

«Ma cavalie…»

«Se morte deve essere, che morte sia».

Il medico si tira su e si acciglia. «Lei non può capire il dolore che potrà provare, e neanch’io posso. So solo che non si può resistere», dice lentamente, così da assicurarsi che il vecchio capisca bene.

Il vecchio annuisce come se gli avesse detto qualcosa che già sapeva.

«Va bene, non posso obbligarla. Ma sappia che l’infermiera resterà qui, e se avesse bisogno sarà immediatamente pronta a…»

«La mandi a casa».

«Cosa?»

«La mandi a casa! E se ne vada anche lei!» urla sbraitando contro il campione della scienza, ai suoi occhi il più grande perdente del mondo.

Le avvisaglie della piena sensibilità sono fitte lancinanti che fioriscono da una parte e poi da un’altra, e si sommano amplificando la percezione totale del dolore, facendone intuire la profondità insensata, come se gli organi marci facessero i preziosi centellinando la verità disumana di fronte alla quale si può solo perdere i sensi o morire. Una stilettata lo colpisce poco sopra l’ombelico e lo fa piegare su un lato e urlare come un vitello sgravato sul prato.

Fiorenzo apre la porta. «Signore, volete l’infermiera?»

«Non far entrare… ah!» esclama piegandosi su se stesso. «Non far entrare nessuno, a meno che io non suoni il campanello, intesi?»

«Certo, signore».

Il vecchio sa che quella sarà l’ultima volta in cui vedrà gli occhi di un uomo. Addio, vorrebbe dire. «Vattene», dice.

La porta si chiude e qualcosa gli si apre dentro la pancia e la sensazione che prova è soprattutto di sorpresa per l’intensità della fiammata che sente sprigionarglisi dalle circonvoluzioni intestinali e urla con tutta la forza che ha, e sente come se dentro gli stesse nascendo qualcosa di simile a un dio per la grandiosità di quel male. Le sinapsi vanno in corto e gli fanno rivivere nitidamente una conversazione avuta col pezzo di merda hippie che ha sposato sua figlia e l’ha portata chissà dove a nutrirsi dei frutti caduti dagli alberi.

Noi non vogliamo fare male a niente e nessuno, tutto qui.

Un giorno Carla erediterà tutti i miei soldi e tutto quello che vedi intorno a te, e gli allevamenti.

Così pare.

E a te sembra giusta una cosa simile?

Cosa.

Come cosa. Questo fatto.

Carla deciderà da sola.

E tu che ci faresti con gli allevamenti, se dovessi scegliere?

Quella faccia impassibile, calma, saccente. Io li convertirei in musei dell’orrore.

«Fanculo!» urla tirandosi a sedere come se un rettile gli si divincolasse nelle budella frugandogli in giro e addentandogli lo stomaco e facendo colare fuori gli acidi che gli cuociono gli organi. Stacca i tubi che raccolgono o immettono fluidi nelle vene, si libera dei legacci che lo annodano al mondo e scende sul parquet. Una vertigine vorrebbe farlo ripiegare sul letto in posizione fetale ma lui si getta in avanti, cade sui ginocchi e poi su una spalla e picchia la testa, e la sua espressione diventa tranquilla.

Poi, nel silenzio, il lungo crepitare di un tuono. L’eco di una frattura sotto la crosta terrestre giunta fino a lui attraverso il fondo di forre abissali, una specie di ruggito.

Apre gli occhi e spalanca la bocca per lanciare un latrato in direzione della finestra, poi striscia guaendo fino a raggiungerla, si appoggia al piano e si tira su spremendo l’energia residua rimasta imbrigliata alle fibre muscolari. Boccheggia poggiando un piede sul davanzale e geme issandosi nella nicchia. Per un attimo resta in piedi tutto tremante. Chiude gli occhi e tastando l’aria con le dita di legno immagina di aprire la finestra e svanire nel cielo notturno che aveva scoperto una notte a Lipari, sul terrazzo della villa di un amico di famiglia, quando insieme a un’isolana diciassettenne che era la vita stessa aveva identificato una stella che era la sua stella, e quella stella era Ras Algethi, la regina rossa del cielo, colei che divora i mondi e a cui tutti devono sottostare. Apre gli occhi. Usa entrambe le mani per veicolare sulla maniglia il peso del corpo e aprire la finestra. Le nuvole che trapuntano il cielo sono dipinte di sangue. Le immagina nascondere un cuore in espansione, un’apocalittica tempesta solare pronta a distruggere l’atmosfera e manifestare l’essenza della natura che avverte esondargli da dentro per stabilire la fine di tutto, e sente come se questo fosse il primo degli ultimi giorni, quelli del fuoco. Fa un passo in avanti e si blocca, guarda in basso e vede Fiorenzo che fuma una sigaretta in cortile. Quello alza la testa.

Fiorenzo guarda il vecchio e rivede la statua di un santo in un’edicola scavata nel tufo del suo paese natio, vicino a casa dei suoi nonni. Il vecchio ha una smorfia indescrivibile sul viso, soprattutto sbalordita, come un anacoreta che rivede il mondo dopo essersi avvicinato a un dio che non conforta; torce il collo con uno scatto e guarda il cielo, alza il mento con la bocca che trema per l’affanno e un filo di bava ondeggia su un alito di vento e si spezza per cadere via come qualcosa di troppo pesante appeso a una liana troppo esile. Fiorenzo sente che il vecchio, lì, è dove deve essere, e quell’impressione di sensatezza lo stordisce.

Quaranta milioni di anni fa una supernova è esplosa scagliando pezzi di sé nel nulla, irradiandosi in ogni direzione, spargendosi in cerca d’infinito. Una di queste monadi ha viaggiato nel silenzio conservando il proprio segreto, superando le profondità cosmiche, accompagnando la luce per poi dimenticarla, e ha raggiunto la terra e ha incontrato l’anima elettrica delle nuvole, trovando in essa qualcuno degno di ascoltare il messaggio che conservava nel suo proprio nucleo indeterminato, e mentre un minuscolo essere umano galleggia nell’aria fissandolo, in quell’attimo si scatena il potere immenso del fulmine e il cielo si apre in due come se questa dimensione si crepasse e rendesse visibile qualcosa al di là, un mondo pieno di luce.

Un racconto di Alessandro Ceccherini

Illustrazione di Marta Perroni

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