Lonesome Town

Ho fatto di tutto per sbagliare strada, ma alla fine ci arrivo, al Rosie’s.

È uno di quei posti che trovi per forza. Anche un idiota ci riuscirebbe. Parti da Bangor e ti macini una trentina di miglia sulla vecchia interstatale, direzione Stetson, che qui da noi non è un cappello, bensì un paesino che vanta di aver dato i natali, nei primi del ‘900, al bue più grosso del mondo. Sai che roba. Poco oltre la falegnameria dei fratelli Eisler c’è una deviazione. Tu metti la freccia a sinistra, scendi giù per la sterrata e il gioco è fatto.

Il termometro sul cruscotto segna meno quindici mentre scalo in prima e mi preparo ad avanzare a passo d’uomo lungo la stradina. È talmente imbiancata che sembra di guidare su un nastro sospeso in mezzo al bosco. Non è poesia, è la cazzo di neve. Nevica sempre un casino, nel Maine.

Finalmente arrivo in fondo e m’infilo nel primo parcheggio disponibile. Spengo il motore e guardo fuori. Ho parcheggiato storto, ma non mi va di fare manovra. Sulla destra ci sono altre tre macchine, più il furgoncino Dodge che speravo di non vedere. Sospiro, battendo la fronte un paio di volte contro il volante. Poi, apro la portiera ed esco.

Il diner sta al centro del parcheggio. È rosso come una ferita. L’insegna al neon dice: Rosie’s Diner, aperto dalle 6 a alle 2 di notte. Entro.

Non è esattamente un diner. Non è nemmeno un bar, o un pub, né uno di quei lounge newyorkesi. È solo un posto dove fanno da mangiare in mezzo al niente, e non c’è quasi nessuno. Una vecchia a un tavolo. Due boscaioli verso la metà della sala, con grosse spalle da rugbisti stritolate in spesse camicie di flanella. In sottofondo, la radio passa un vecchio pezzo di Ricky Nelson, Lonesome Town. Per un attimo mi concedo il lusso di sperare che James non sia al lavoro, che il furgoncino glielo abbia preso Dave per dargli il cambio. Ogni tanto capita.

Poi, la porta dei gabinetti si apre e io sento la sua voce chiamarmi.

– Ehi, Carl! –

Fanculo.

James è alto, t-shirt nera con le maniche strappate, testa bionda. Il classico tipo che non ha bisogno di arrivare al terzo appuntamento con una ragazza per andare a segno. Almeno, fino a un anno fa. Da quando ha mollato il college, ha iniziato a ingrassare. Anche la faccia è cambiata. Be’, che diamine, penso. Non è colpa mia. Dovrebbe andare in palestra. E poi lo sapeva che Lisey ci teneva, a quella festa. Ti pare normale? Uno che passa tutti i weekend a scrostare tazze del cesso, invece di uscire con la propria ragazza?

James si avvicina. Tiene in mano un bastone di quelli per sturare i gabinetti.

– Non mi avevi detto che saresti passato. –

– Ho avuto da studiare. –

– Ancora Algebra II? –

– Sempre quella. Continuo a sbagliarla. –

Ci fissiamo per un momento, ma poco dopo devo abbassare la fronte, stringendo i pugni nelle tasche del parka.

– Be’, ho pensato di fare un saluto. Sono solo di passaggio. –

Lui non risponde. Poi, la sua bocca si piega in un sorriso pieno di calore e io sento lo stomaco attorcigliarmisi. Sorrideva allo stesso modo, fino a una settimana fa, quando mi raccontava i suoi progetti. Sposarsi, mettere su famiglia. Ci stavano anche provando, da un paio di settimane.

È quella giusta, Carl. Me lo sento. Ancora un po’ di straordinari e le compro l’anello.

– Non fa niente –, dice, passandosi il bastone nell’altra mano. – Mi do una pulita e ti preparo qualcosa. Come ai vecchi tempi. –

– Jim… –

– Mettiti comodo, arrivo tra due minuti. –

Sospiro e annuisco, sconfitto. Vedo le sue scarpe girarsi e andarsene. Per un attimo sono tentato di sgattaiolare via anch’io. La guardo anche, la porta, ma alla fine mi siedo su uno degli sgabelli al bancone. Non posso essere così stronzo. Ho fatto già abbastanza. Sfilo il foglio plastificato del menù e mi metto a leggere le liste di ingredienti, nemmeno fossi un maledetto chef francese.

There’s a place where lovers go to cry their troubles away, and they call it Lonesome Town, where the broken hearts stay…

Un cigolio sulla destra mi fa rialzare gli occhi. James riabbassa l’assicella di legno del bancone e si piazza di fronte a me.

– Allora –, mi fa. – Che ti fai? –

– Non lo so. Pensavo a un panino. Lo fate ancora quello con l’aragosta? –

– Decido io, allora – mi ignora. I suoi zigomi sembrano quasi scoppiare, da quanto mi sta sorridendo. – Ho giusto un’idea. –

– Senti –, rispondo, rimettendo a posto il menù. – Parliamone. Io… –

Non faccio in tempo a finire, che James mi dà le spalle. Lo vedo afferrare un bicchierino da shot, poi una delle bottiglie dei superalcolici. Non c’erano nemmeno, quelle, fino a pochi mesi fa. Ma qui da noi è facile pagarsi la licenza per servire liquori, più che altrove. Non siamo il Vermont, ma nemmeno la California.

– Non mi va di bere. –

Lui si gira di nuovo e mi fissa. Gli occhi gli luccicano.

– E perché? –

– Devo studiare, te l’ho detto. –

– Credevo ti piacesse, bere. –

– Non alle tre del pomeriggio. –

– Ah. – Torna a girarsi e colma il bicchierino fino all’orlo. – Preferisci la sera. Sì, in effetti hai ragione. Ci si diverte di più, con un po’ di alcol nelle vene. Dico bene? –

Io chiudo gli occhi. Non appena James batte il fondo del bicchierino davanti a me, lo afferro e lo butto giù d’un sorso. Troppo tardi, riconosco il gusto della roba che mi ha dato e nella mente mi esplode una serie di immagini della festa. Lisey che mi bacia con una bocca che sa di questo stesso sapore. Lei che mi trattiene le cosce coi talloni e intanto mi sussurra con voce impastata dal bourbon che mi vuole, mio Dio, mi voleva da così tanto.

– Buono? – mi domanda James.

Riapro gli occhi e mi asciugo la bocca col dorso della mano. Sento un nuovo tintinnio, il gorgoglio di altro liquore che viene versato. Sbatto le palpebre e vedo James intento a colmarmi di nuovo il bicchiere.

– Basta, dai. –

– Non fare la fichetta. Ogni tanto ci vuole. –

– Jim… –

– E va bene, facciamo così –, propone. Struscia il bicchiere e me lo piazza sotto il naso. – Te li offro io. Tutti i giri che vuoi. Ho un sacco di soldi da parte che posso usare, ora. Non preoccuparti. Non mi servono più.

La nausea mi colpisce come un pugno allo stomaco. Mi viene da vomitare, come alla festa dopo quegli stramaledetti shot. Lisey, con la testa dentro il gabinetto mentre io le reggevo la fronte. E poi viceversa, quando ci siamo dati il cambio. Una puzza. Però ridevamo, e, non so, ma quando abbiamo tirato lo sciacquone e abbiamo visto la doccia, ci è parsa una buona idea. Ma poi le si sono bagnati i capelli, ed erano rossi, non castani come li avevo sempre visti, e le sue dita, cazzo, hanno cominciato a tirarmi giù la zip. Così piccole…

Mi passo una mano sulla faccia.

– Bevi –, sibila James.

Io afferro il bicchiere fra pollice e indice tremolanti. Non posso dirglielo. So che lo sa ma, Dio, non ci riesco.

– Jim –, bisbiglio, alla fine. – Mi dispiace. Tanto. –

Sento le sue narici sbuffare un doppio getto d’aria. È come se avessi risvegliato un toro, uno di quelli pronti a incornarti fino alla morte.

– Ti dispiace. – La sua voce è come succo acido d’agrumi misto a chiodi. – Ma figurati, Carl. È tutto a posto, Carl. Ce li ho i soldi, te l’ho detto. E anche il bourbon. Litri e litri di… –

– Per il parcheggio –, mormoro.

Lui si blocca. Apre la bocca, la richiude. Non sembra aver capito.

Io stritolo il bicchierino e fisso il liquido ambrato.

– Qua fuori. Ero su di giri, e non ci ho pensato. Sono uscito dalle righe –, dico, scandendo bene le parole. – Ho superato la linea, e di parecchio. Tu non l’avresti fatto, al posto mio. – Sento gli occhi pizzicarmi. Il bicchierino si sdoppia e diventa tremulo, liquido. –

Lo sento inspirare, espirare. Ora mi ammazza, penso. Mi gonfia di botte e io non ho il diritto di impedirglielo.

Forse, però, posso evitargli di perdere perlomeno il lavoro. Così, poco dopo, mi alzo. Lui non si muove. Mi alzo il cappuccio del parka, e intanto Ricky Nelson lascia il posto a un’altra ballata, una che non conosco.

– Ci vediamo –, dico.

M’incammino verso la porta. È stupido che io voglio che la veda, ma non mi va che pensi che io sia stato un bastardo fino in fondo. Perciò, poco prima di uscire, tiro fuori dalla tasca una bustina strappata in cima, quadrata. Appoggio la confezione del preservativo sopra a un tavolo, poi mi richiudo la porta alle spalle.

Fuori, inalo otto litri di freddo. Vorrei accendermi una sigaretta, ma le ho lasciate in macchina e voglio aspettare James. Glielo devo. Resto lì dieci, quindici minuti, ad alitarmi nelle mani a coppa e fissare le macchine immobili come dinosauri sotto la coltre sempre più spessa.

Dopo parecchio, vado verso la mia e rimetto in moto. Controllo il cellulare: due messaggi di Lisey, entrambi per chiedermi com’è andata. Apro l’aria condizionata e mi crogiolo nel calore dei bocchettoni.

Ci metto parecchio a convincermi, ma alla fine riparto, dal Rosie’s. Pochi minuti dopo sono già in viaggio, e del diner e del mio migliore amico non resta altro che un fantasma, come i tronchi spezzati nel piazzale della falegnameria Eisler e lasciati a morire.

Un racconto di Alice Bassi

Illustrazione di Lola D’Autilia

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