Topi

È trent’anni che lavoro qui. Trent’anni e mai una volta che mi sia presentato in ufficio con la camicia stropicciata o senza la cravatta.

È difficile dire di che cosa ci occupiamo. Pratiche, moduli. Uno dovrebbe esserci un po’ dentro per capire fino in fondo quello che… sì, insomma. Pratiche, moduli. Scartoffie. Operazioni così delicate che non possiamo nemmeno usare il computer: non ne hanno ancora inventati di abbastanza precisi. Forse un giorno, chissà, ma per adesso dobbiamo fare affidamento su penne a sfera, matite, gomme e cancellini.
Scrivere tutto a mano allunga i tempi a dismisura. Lavoriamo sempre tanto, e anche questa sera mi tocca fermarmi oltre l’orario d’ufficio. Rimanga tra noi: mi fermo sempre oltre l’orario d’ufficio. Diciamo che questa è una di quelle sere in cui mi fermo oltre l’oltre solito orario.
Provo a restare concentrato sul foglio che ho davanti agli occhi, e alla fine sono proprio loro, gli occhi, ad avere l’ultima parola. Lacrimano, si socchiudono, cominciano ad annebbiarsi. Io li stropiccio, li massaggio con un polpastrello, ma niente da fare: le ultime pratiche sono costretto a compilarle alla cieca.
Uscendo spengo la luce. Sbadiglio forte.

Davanti alla porta d’ingresso, gli occhi – sì, sempre loro – notano che uno dei fogli sulla scrivania dell’accettazione è fuori dalla sua cartellina. Qui svolgiamo un lavoro che richiede una precisione che neppure un computer è in grado di… l’ho già spiegato, no? Insomma, una cosa del genere è un bel problema. Un cattivo presagio. Rimetterlo a posto è un riflesso cui non posso resistere. Non dovrei leggerlo, ovviamente, ma…
È un curriculum vitae. Il malcapitato vi ha scritto tutto di sé: dove ha studiato, per chi ha lavorato. Nato il, residente a. C’è anche una sua foto: ha gli occhi scavati, pochi capelli in disordine, il naso aquilino e le labbra sporgenti da rana.
Di questo non mi fido.

Non è trascorsa nemmeno una settimana e già Faccia di Rana si aggira attorno alla macchinetta del caffè.
«Cerchi qualcosa?», gli dico. Il tipo sobbalza. Ho fatto di tutto per non farmi sentire mentre arrivavo, e infatti non mi ha sentito.
«Ehi, non ti avevo mica visto. Scusa, io sono…».
«Sei quello nuovo».
Una risatina imbarazzata. «Esatto. Piacere, sono Fulvio». Fa un passo verso di me, mi tende la mano. Io faccio un passo all’indietro, verso il muro.
«Piacere».

Nei giorni seguenti lo tengo d’occhio. O almeno ci provo, visto che i superiori ci bacchettano alla prima distrazione. E quando dico “bacchettano” intendo proprio bacchettano. Mentre noi lavoriamo loro ci girano attorno tenendo alte dietro la schiena delle lunghe stecche di legno. È raro che le usino davvero – dopo tutti questi anni ho capito che fanno più che altro da deterrente – ma ci aiutano comunque a mantenere la concentrazione.
I turni variano dalle otto alle dodici ore. Dipende dal periodo, ma siamo sempre molto indaffarati. È per questo che di tanto in tanto assumono nuovo personale. Carne fresca. Li mettono subito sotto: il primo mese li legano direttamente alla penna. Tre o quattro passate di scotch, e sono sicuri che nessun crampo fermerà la mano (e la produttività) dei novellini. Può sembrare un metodo duro, ma funziona. A Fulvio però la penna non l’hanno messa. Mi incuriosisco, e un pomeriggio mi permetto di chiedergli spiegazioni. Del resto, è l’ultimo arrivato.
«Ma sai che non ho ancora capito in che reparto lavori?», gli dico.
Lui mi guarda con quei suoi occhietti infossati mentre le mostruose labbra da rana gli si allargano in un sorriso di circostanza.
«Ma sai che volevo farti la stessa domanda?».
«Io sono un calligrafico», gli rispondo. La soddisfazione di farmi passare per una nullità non gliela do.
«Ah, ecco, ecco».
«E tu, dove ti hanno messo? Comunicazioni? Logistica? Amministrazione? Ermeneutica?».
Quello ci pensa un po’ su, e mi sta per rispondere quando arriva il responsabile delle risorse umane. Indossa una camicia a righe bianche e blu ed è senza capelli. Dietro la schiena tiene una lunga bacchetta di legno di frassino.
Per riportarci all’ordine gli basta uno sguardo.

Arriva giugno, il periodo più pesante dell’anno.
Dovete sapere che se il Cliente non riceve le pratiche entro l’estate rischiamo di incorrere in gravissime sanzioni. La responsabilità che queste tempistiche vengano rispettate grava sulle nostre spalle. E quando dico “nostre” intendo di noi calligrafici. Non me ne vogliano i commercialisti, non me vogliano giù a ontologia – loro studiano e si applicano, ma alla fine quelli che scrivono siamo noi. E scriviamo, oh se scriviamo.
Man mano che completiamo le pratiche, le infiliamo in delle buste bianche e riponiamo il tutto in dei grossi sacchi di juta. Gli impiegati della logistica li vengono a recuperare e… cioè, non è che li vengano a recuperare personalmente: per quello ci sono gli assistenti e gli stagisti. Loro controllano che quegli altri prendano i sacchi e li organizzino in base alla data di consegna. Cosa succeda dopo, che cosa faccia il Cliente, nessuno lo sa. Privacy, sapete.
Ma in tutto questo, vi starete chiedendo, in tutto questo dov’è Fulvio? Dov’è l’indispensabile, l’irreprensibile Fulvio? E chi lo sa! Ormai lo incontro solo davanti alla macchinetta del caffè (ha imparato a usarla, questo glielo concedo). Ha sempre l’aria trafelata, è sempre tutto sudato. E si lamenta. Quell’uomo è un lamento continuo. Che sagoma! Io avrei ragione di essere stanco, io mi dovrei lamentare, visti i ritmi cui siamo costretti.
La stanchezza ti piega, non ha pietà, prova sempre a farti commettere qualche sciocchezza: una collega, ad esempio, ha da poco avuto un collasso nervoso, un’altra si è fatta la pipì addosso mentre scriveva. A me aiuta l’esperienza. È l’esperienza che mi dice quando rilassare i muscoli della mano (una O stanca meno di una una E: godetevela) ocome preservare le energie (non mettete né i puntini sulle I né i trattini alle Z).
Ma la stanchezza, l’ho detto, è infida. Cerca di coglierti alla sprovvista e alle volte ci riesce. Così capita che, dopo essere andato in bagno durante una delle poche pause che mi sono concesse, persino io mi addormenti sulla tazza del water.

Mi risveglio solo molte ore dopo.
Ci metto un po’ a ricordare, e non è un processo piacevole. Con tutta probabilità mi hanno lasciato un richiamo disciplinare sulla scrivania. Magari mi hanno direttamente licenziato. Per un secondo l’idea mi sfiora il cervello, e una serenità che mai… poi apro la porta.
Le stanze sono deserte e buie e silenziose. “Meglio sgattaiolare fuori in silenzio”, mi dico. “Meglio sgattaiolare fuori come un topo e sperare che nessuno mi becchi”.
Sono già all’ingresso, davanti alla reception, quando vedo una busta per terra. Non è normale che una busta se ne vada in giro tutta sola a quest’ora. Non dovrei raccoglierla, ma… il mio cuore salta un colpo. È una delle nostre. La apro. Il mio cuore si ferma. Le I non hanno i puntini, le Z non hanno trattini e dio come sono panciute quelle O. Muoio. Questa pratica dovrebbe essere nelle mani del Cliente da settimane, cosa diavolo…
Mi guardo intorno, d’un tratto sospettoso. Sono già nell’androne che dà sulla strada quando noto che il cancelletto della cantina è aperto per metà. Il lucchetto pende da una sbarra con tanto di chiave infilata nella serratura.
I piedi si muovono senza che il cervello glielo abbia ordinato. Disobbediscono, i disertori. Scendono i gradini piano per non scivolare. Da sotto arriva un rumore. E un bagliore. E un calore.
La cantina è una grossa stanza con un camino al centro. Un uomo mi dà le spalle, ma deve avermi sentito arrivare perché si volta subito verso di me. Ha il viso coperto dalla fuliggine e le mani nere come il carbone.
«Fulvio», vorrei sussurrare, ma anche la lingua disobbedisce, e dalla bocca non esce niente.
Fulvio getta qualcosa tra le fiamme con una vanga. La infila dentro a dei grossi sacchi di juta e la svuota direttamente nel camino. Nell’aria svolazzano brandelli di carta anneriti – lettere spirate nel fuoco.
I sacchi giacciono in terra e hanno dei numeri scritti sopra. No, non numeri. Date. Sono date. La calligrafia è quella dell’assistente del reparto logistica, la riconosco. Ho occhio per queste cose.
«Fulvio…».
«Lo so, siamo in ritardo. Mi tocca fare gli straordinari».
Mi sento svenire. «Credevo…», riesco a boccheggiare. «Credevo facessi il ragioniere, l’addetto alle telecomunicazioni. Che lavorassi giù alle consegne, o a linguistica, o… o…»
Trent’anni. Trent’anni.
«Macché», ride. «Io faccio il fuochista».

Un racconto di Matteo Candeliere

Illustrazione di Marta Perroni

Lascia un commento