Il fondatore

2016

Andiamo a trovare tuo fratello, mi hanno detto. Non vedo l’ora.

Lui vive via da qui, nella città di Milano, ma quando torna per le feste non ci racconta niente: si ritira tra le spalle e mangia la polenta con la voracità del nonno; come il nonno, non parla molto. A volte sembra tonto, però quando mi guarda vedo che non lo è. Ha due occhi che fanno ridere.

Mamma si infila le dita tra i capelli, mentre papà accende il motore per scaldare il parabrezza; le scaglie di ghiaccio si sciolgono e tra i vetri le montagne sono già lontane, ora che scendiamo i tornanti verso la città di Milano. Prima arriviamo meglio è, dice la mamma, e so che non è felice come me. A lei non piace la macchina.

Papà è già stato nella città di Milano, per aiutare mio fratello con il trasloco. È da quella volta che possiedo una mappa della città di Milano, anzi, una piantina, mi corregge papà, ed è per questo che so il nome di tutte le vie e le piazze. Metto sempre nello zaino la piantina della città di Milano, quando vado a scuola.

Non vedo l’ora che la strada diventi larga e diritta: magari compare subito il Duomo, piccolo piccolo all’inizio, con le sue giulie. Guglie, mi corregge papà.

Io sono un appassionato della città di Milano: per questo a scuola ho chiesto al professore di prestarmi i suoi libri sulla città di Milano. Li sto leggendo uno ad uno, ma non capisco ancora tutto. Sai che ci sono anche delle canzoni sulla città di Milano?, mi ha chiesto il professore. Lui ha vissuto nella città di Milano, chissà perché se n’è andato! Io non lo farei mai.

Siamo all’autogrill, la pianura è grande come un mare; la mamma piange, vuole tornare indietro. Lei non è mai uscita dalla valle, questi spazi vuoti la spaventano. Almeno fra le montagne può dormire, come un bambino nella culla.

Facciamo dietrofront, dice papà, triste. Ci vediamo un’altra volta, città di Milano!

2021

È rimasto un po’ piccolo, Federico: d’altronde, vivere tra queste montagne non aiuta. Non il peggiore, tra i miei ex allievi: qua i cretini abbondano, qualcuno bofonchia e altri squittiscono; lui, invece, a modo suo si esprime, e legge molto. Ci sono delle intelligenze infantili che percepiscono bisogni inavvertiti, segrete mancanze. La sua è fra queste.

Non so cosa sarà di lui: finire la scuola dell’obbligo è stata una sventura, perché non ha alcuna intenzione di aiutare il papà in officina, e se scendesse in pianura si troverebbe indifeso. Quel che fa è vagare per il paese, con un sorriso sghembo, e cantare “Luci a San Siro” quando mi vede, perché gliel’ho fatta ascoltare io, cinque anni fa.

Milano mia, portami via, fa tanto freddo, schifo, e non ne posso più…

È tutt’altro che deficiente, si è creato un mondo che coincide con le nostre quattro case e che allo stesso tempo è Milano, la città scintillante, il palcoscenico della mia gioventù stupenda e sciagurata, il passato sepolto e sfuggito.

Per Federico, il baretto del paese, con la sua puzza di grappa e formaggio, esposizione permanente di gagliardetti e teste di cervo, è la Galleria Vittorio Emanuele, e quando passeggia naso all’aria davanti alla chiesa il suo sguardo si posa sul Duomo.

La casa più alta, qui, ha tre piani: lui la chiama “il Pirellone”; tifa Milan e tifa Inter, legge Bianciardi e lo capisce più di altri, compulsa i noir di Scerbanenco, imita la parlata di Jerry Calà nei film degli anni Ottanta. Ogni angolo ha per lui un nome meneghino: chiama Montenapoleone il vicolo pavesato dove lavorano una parrucchiera e un calzolaio, le carrarecce sono circonvallazioni, i burattini si esibiscono alla Scala, i boschi sono parchisempione; si scatena davanti ai campi di ortiche perché gli ricordano una canzone di Jannacci.

Senza esserci stato, conosce la città meglio di me, perché dopo un po’ che si è via le strade e le piazze perdono il loro nome, e i volti si fanno astratti come maschere, come divinità lontane.

Ora che la metropoli non gli serve più, reinventata in questo paese di duecento anime, il povero Federico viene caricato sull’auto del papà e portato al cospetto dell’originale.

Dalla finestra, li vedo prepararsi: il papà dolente e risoluto, il figlio un po’ confuso e incerto. Sono soli: la mamma non reggerebbe un viaggio del genere, né può prendersi cura di lui; resta nel letto, barricata in una casa sempre più scura, intonata alla valle.

Pur conoscendolo appena, mi sono sempre sentito vicino al loro figlio maggiore, il fratello di Federico: so che è facile aggrapparsi al primo treno veloce, non lasciare più i binari, fino a deragliare. Non è colpa della città: ognuno decide la cornice, un paesaggio tutto per sé, eco di grida inascoltate; c’è chi si confeziona una prigione, gettando la chiave di ogni lusinga, e chi vortica nell’aria, polvere sottile sopra i grattacieli, i padiglioni, i boschi verticali. Io ho scelto la fine dell’uomo di Similaun, per conservarmi intatto sotto la neve, mille anni ancora. Quando i ghiacciai, sciogliendosi, restituiranno il mio volto, nessuno potrà dire che sono nato a Milano, che a Milano ho amato fino al rigetto, fino a sentire gli aghi nelle vene.

Sembra più grande, ora, il fondatore di una nuova Milano, seduto al posto del passeggero, alla destra del padre, mentre l’auto si allontana.

Vanno a riconoscere un corpo trovato sulla panchina di un parco, nel mezzo di un quartiere ancora senza nome.

Un racconto di Enrico Cattaruzza

Illustrazione di Artista Senza Nome

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