L’uomo nell’armadio

L’uomo nell’armadio mi obbligò a tacere. Avevo sentito per due notti il suo respiro, oltre le ante socchiuse, poi mi ero deciso ad aprire l’armadio per vederlo in faccia. Si nascondeva, non voleva parlarmi. Non doveva avere più di quarant’anni e nonostante la pelle esangue e i denti storti non sembrava cattivo. Chissà come ci era finito, lì dentro.

– Vuoi mangiare? Vuoi che ti porti qualcosa?

Probabilmente usciva per andare in bagno e mangiare qualcosa di nascosto quando dormivo o mentre ero fuori. Non sembrava magro né malato.

– Forse dovrei chiamare il padrone di casa, – gli dissi calmo, mettendomi a sedere di fronte a lui. – Adesso ci abito io, qui. Dovresti trovarti un nuovo posto in cui stare.

Non chiamai nessuno, però, perché mi faceva un po’ pena. Dormiva, quasi tutto il giorno, e ringhiava non appena mettevo la mano sulla maniglia satinata. Bastava lasciarlo stare, era un coinquilino, nulla di più.

A farmi paura era soprattutto l’armadio. Si trattava di un vecchio mobile di legno massello, con quattro piedi tozzi e solidi che lo ancoravano al pavimento. Di notte arrivava quasi al soffitto e le ombre lo rendevano ancora più massiccio, incombente, una porta nera verso qualcosa che non volevo conoscere, uno schermo.

Lo sconosciuto non cambiò atteggiamento col passare delle giornate, né dimostrò di volermi parlare. Si limitava a guardarmi, in silenzio assoluto.

Sentivo che era felice quando avevo ospiti, le nostre risate lo divertivano, i nostri piccoli drammi lo intrigavano. Sentivo anche che si masturbava quando portavo in camera una ragazza.

Non era ingeneroso buttarla sul letto di modo che lui la vedesse, offrendo alla sua vista il lato migliore di quella carne che mi riempiva le mani. Lui non aveva niente, non aveva mani né carne da stringere ed era lì, immobile, segreto, a spiarci dalla fessura. Sentivo nettamente la sua gratitudine filtrare dalle ante mentre i seni delle mie ospiti baluginavano alla luce dell’abat-jour come due piccole lune gemelle, sentivo che apprezzava anche lui la scenografia di ogni accoppiamento.

Al lavoro spesso pensavo a lui, alla sua giornata monca. Doveva annoiarsi quando ero fuori casa. Mi sentivo in colpa quando facevo tardi e non tornavo a portargli un po’ di sollievo.

Per ricompensarlo cercavo nuove ragazze, miravo a quelle più belle che una volta non avrei nemmeno provato ad avvicinare.

La sua preferita era Diana. L’avevo conosciuta in discoteca ed eravamo rimasti amici. Ogni tanto si fermava la notte e ogni volta che finivamo a letto insieme sentivo lo sconosciuto dentro l’armadio strepitare e impazzire. Una volta lo sentì anche lei: si fermò subito e mi guardò con due occhi improvvisamente sobri, spalancati.

– Hai sentito anche tu?

– Cosa?

– Un rumore strano, da quella parte.

– È il vento.

– Non mi sembrava vento.

– È una vecchia casa piena di spifferi, il vento entra ed esce quando vuole. E fa rumore. Stai tranquilla.

Il mio ospite mi fu molto grato, perché la buttai sul pavimento e la presi da dietro mentre la sua testa biondissima sfiorava coi capelli il legno del nostro armadio.

Non avevo il coraggio di guardarlo allo stesso modo, la mattina dopo.

Diana dopo quella volta non si fece più vedere. Mi disse di avere avuto troppi incubi, che la mia casa nuova non le piaceva. Preferiva il vecchio appartamento, che non aveva nulla di speciale ma non era così instabile e buio, preferiva prendersi una pausa da tutta quell’oscurità.

– Mi hai fatto male, l’altra sera. Mi hai morso.

– Non ti ho mai morso.

Lei ne era sicura, comunque. Al risveglio si era trovata una mezzaluna di denti storti sulla coscia.

Furono in molte a dire la stessa cosa. Scoprii di aver strappato ciocche di capelli, masticato cosce, graffiato schiene.

Il mio ospite si fece silenzioso quando le ragazze cominciarono a diminuire. Ci annoiavamo entrambi.

Il nostro sollievo era il sabato sera, quando venivano a trovarmi gli amici. Oltre ad occasionali defezioni, il gruppo era compatto e presente come sempre. Cominciammo a radunarci attorno all’armadio, a sederci per terra per parlare.

Dissi a Michela che era una stupida puttana perché continuava a chiederci di uscire o almeno di andare a sederci sul divano.

– Perché dobbiamo stare qui seduti in camera tua?

Anche suo marito sospettava qualcosa. Credeva che volessi proporgli un’orgia. Alla fine della serata mi prese da parte, quando tutti gli altri erano già defluiti verso l’ingresso, e mi disse: – Ti vedo strano.

– In che senso?

– Non so, parli in un modo diverso, sembra sempre che tu stia recitando. Hai ricominciato con la roba?

– Non dire cazzate.

– Non sto scherzando. Hai ricominciato con quella merda?

Mi disse dell’orgia. Pensava che stessi organizzando qualcosa, anzi ne era sicuro. Col suo tono paterno: – È normale essere attratti da Michela. È una bella ragazza, fa un sacco di sport. E anche Sandra lo è, certo. Anche io ci ho pensato, sai? Un’orgia. Sandra, Michela, Serena. Tutte insieme. L’unica cosa che mi frena sono gli uomini. Non so se ci riuscirei, coi loro mariti.

– Pensi che voglia stare in camera da letto per questo motivo?

– Non devi vergognarti. Chi sono io per giudicare? Ci penso anche io, ogni tanto. Ma la fantasia è una cosa che va tenuta a bada, altrimenti prende il sopravvento. Mi capisci?

Michela me la scopai, alla fine. Le chiesi aiuto con il computer, con un certo lavoro che non riuscivo a fare da solo. Lei si presentò un sabato mattina, con la solita borsa a tracolla e un sorriso un po’ forzato.

Ci era rimasta male, mi disse, per come l’avevo chiamata qualche sera prima.

Non era una stupida puttana.

Andammo a lavorare in camera, le dissi che avevo spostato il computer lì perché amavo scrivere da sdraiato. Lei non parve sorpresa, forse si stava abituando alle mie stranezze. Si preoccupò solo quando non vide il pc, ma fu troppo lenta. Le fui addosso prima che potesse fuggire, la immobilizzai a terra e le strappai la camicetta con una manata. Lei piangeva, scalciava, ma era così piccola che non riusciva a liberarsi del mio peso. Mi forzai dentro di lei alzandole la gonna di jeans, slabbrandole gli slip mentre lei continuava a piangere e gridare.

Ero sicuro che il mio ospite stesse impazzendo, dentro l’armadio, lo sentivo muggire come un animale mentre grattava con le unghie e coi denti storti le pareti scure in cui si teneva rinchiuso.

Alla fine la portai in bagno, la aiutai a lavarsi.

– Non ho fatto niente che non volessi anche tu. Guardami. L’abbiamo fatto insieme.

Lei continuava a singhiozzare, a dirmi che ero un bastardo. Lo scarico del lavandino mi fissava come una serratura senza chiave.

– Lo volevi anche tu, lo voleva anche tuo marito. Me l’ha detto. Era una sua fantasia. Siamo tutti felici, ora, stiamo tutti bene.

Michela aveva un labbro rotto, doveva essere caduta. – Sei un figlio di puttana, sei un bastardo.

Quando la toccai sulla schiena sentii una scossa che la fece scattare e correre giù dalle scale. Ancora svestita, ferita, la guardai fuggire fra le macchine come una preda davanti al fucile del cacciatore.

Andai subito a farmi una doccia, a quel punto, non mi restava altro che acqua. Mi lavai la testa, districandomi i capelli e fregandomi via tutto quell’odore di paura.

Alla fine mi ritrovai nudo a sgocciolare sul pavimento, fermo davanti all’armadio e sentii che non sarebbe finita lì. Lo spettacolo doveva continuare, dovevo trovare nuove idee e smetterla di pensare a cosa mi sarebbe successo.

– Sei felice, adesso? L’armadio era silenzioso, ben chiuso. Quando mi avvicinai provai un brivido immaginandolo vuoto.

Un racconto di Edoardo Balacchi

Illustrazione di Francesca Paola Turco

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