Uova sode

Ci sono tre fantasmi seduti al tavolo della nostra cucina. È per quella stanza che l’abbiamo scelta, questa casa, nel marasma degli agenti immobiliari e i documenti per le nozze e i contratti d’affitto per coniugi, perché la finestra a quattro ante prende quasi tutta la parete, e il sole nasce a sinistra e muore a destra, ben visibile. I tre fantasmi stanno sulle nostre sedie di vimini tutte le notti. Giocano a carte. Si fermano sempre quando mi sveglio per andare in bagno e passo loro accanto: rimangono con le dita a mezz’aria, nel bel mezzo di un asso pigliatutto o una rivincita a briscola, e mi guardano. Li vedo riflessi nella finestra, coi loro occhi bianchi come uova sode piantate nel buio. Si muovono con me mentre faccio un passo, poi due, finché non mi chiudo la porta del bagno alle spalle con la tachicardia, nella speranza che non mi abbiano seguito. Qualche volta lo fanno.  A volte rimangono con me fino a entrare nel mio materasso: me ne accorgo perché li sento graffiare, come dall’interno, dei fastidiosi cric cric nel mio orecchio.

Tu non li senti mai. Quando ti svegliavo o ti distraevo dalle tue letture notturne e ti dicevo amore, ci sono tre fantasmi seduti al tavolo della nostra cucina, all’inizio ridevi e mi suggerivi di accendere la luce. Poi hai cominciato con prova a farti curare, ché a detta tua sembravo sempre sbronzo anche se non avevo toccato alcol.

Stanotte non mi seguono: sono io che mi fermo, in mezzo alla stanza, a guardare loro che guardano me. Uno sposta l’unica sedia non occupata, senza provocare il minimo fruscio sul parquet del 1934, per invitarmi a sedere al tavolo della mia cucina. Penso a te, che dormi di là e fai sogni tiepidi e forse confidi ancora un minimo nella mia razionalità in potenza, e faccio un passo in avanti. Accetto l’invito, e diamo le carte.

È come giocare a briscola coi nonni del bar all’angolo di via Vanchiglia, solo con un silenzio tombale al posto dei borbottii incessanti e delle imprecazioni in dialetto. Mi sembra di avere a disposizione cent’anni per finire questa partita, in questa staticità stagnante come aria umida. Rimango nel nostro limbo di gesti di piuma e pensieri lenti, finché uno dei tre non parla, con nonchalance e una voce incredibilmente normale, viva, e mentre cala un asso di coppe mi dice: pel di carota. Rimango interdetto, il re di denari immobile fra il mio pollice e il mio indice, il fantasma ha detto proprio quello: pel di carota. Vorrei ridere per l’espressione da bambino di cinque anni, ma ho un groppo in gola, che mi apre in faccia una smorfia. L’aura millenaria del fantasma, il suo aspetto nodoso, scheletrico, fa a pugni col ricordo di quel nomignolo, usato dai miei coetanei quando ancora indossavamo i grembiuli azzurri e rosa a scuola, ed eravamo obbligati a mangiare la verdura bollita della mensa. Aperto il rubinetto con un colpo di pel di carota, il fantasma continua. Scopre i denti in un sorriso che sembra annebbiato, un banco di foschia nel bel mezzo di una pianura notturna, e poi: ma quanto pesi? Re di denari in bilico.

Lascialo perdere, interviene l’altro fantasma, i bulbi oculari concentrati sulla sua mano di carte, fa sempre così. Penso a te, che ti chiederesti forse con chi è che questo qua fa sempre così. Ma tu dormi di là e a me vien solo da annuire.

Il terzo fantasma non parla: è l’unico a rimanere sempre in silenzio, per tutta la notte, fino all’alba. Mi guarda soltanto, nel riflesso della finestra, e c’è qualcosa di tenero nel suo viso che non riesco a vedere per bene, che non ha lineamenti, come fosse un sogno: ho la sensazione che mi guardi come se gli dispiacesse per me, o volesse chiedermi scusa. Non dice niente, però: mi rimira mentre incasso, mentre mi si pianta poco a poco un magone in gola che resta fisso lì e non esce più. Non ricordo neanche l’ultima volta che me n’è uscito uno, che non m’è rimasto fermo e aggrovigliato fino a tornare in circolo nell’organismo. Ho voglia di toccargli una mano, quando a sinistra della finestra spunta il sole e i tre iniziano a sparire, e ho quasi l’assurda impressione che anche lui voglia fare lo stesso con me.

Mi trovi seduto al tavolo della cucina con due occhiaie violacee e non sai cosa dire, non sai più cosa dirmi, non ci provi neanche, hai smesso di suggerirmi di accendere la luce. Mi dici che Carla ha ottenuto una promozione, e stasera uscite a festeggiare. Annuisco. Prendiamo il caffè – io amaro, tu con zucchero di canna e latte di mandorla – ci stampiamo un bacio sulla bocca e, poi, andiamo a occuparci delle nostre vite.

Ti sento arrivare dalle scale a notte inoltrata, chiassosa come sei solo quando sei ubriaca. Sono mesi che non ti vedo così, che non ti vedo bere, e quando ci metti un minuto buono a capire come aprire la porta ti lascio fare, sorridendo già nella tua direzione. Mi saluti ridendo, dici che davanti casa nostra cercano il centro della Terra, con tutte quelle ruspe e trivelle grosse così, spalanchi le braccia per contenere l’enormità del metallo nei tuoi pensieri altalenanti, e viene da ridere anche a me, che ti rispondo che magari se trovano il centro della Terra succede qualcosa di assurdo, e bello, tipo che ci svegliamo al mattino e veniamo in cucina e vediamo che il sole nasce a destra e muore a sinistra. Ridi ancora. Hai l’alito che sa di mirto. Poi, ti volti leggermente per guardarmi nella finestra, e ti si spezza la risata in gola. Spalanchi gli occhi, simili a uova sode nel buio della cucina, come se avessi appena visto un fantasma.

Un racconto di Fabiola De Santis

Illustrazione di Melissa Brusati

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