La nuova casa

Finito il funerale ho dovuto chiedere ai parenti, pregarli direi, di lasciarmi solo. No, Davvero, Grazie, Non c’è bisogno.È stato stancante, forse perché ero a un passo da casa e davvero non credevo avrei dovuto fare altro. , Sto bene, Cioè sto come devo stare, Certo. Mi sono sentito in colpa: come se facessi un torto a loro che ancora volevano regalarmi compagnia. Non state in pensiero,, Preferisco, Ci sentiamo presto. A quel punto mi sono stupito perché io non dico mai quelle cose lì, quei saluti formali che promettono future conversazioni. Impegni che poi, ne sono consapevole, non manterrò. Perché io, i parenti, specie alcuni che tutti definirebbero importanti, di mia iniziativa non li ho mai chiamati. Ci hanno sempre pensato i miei.

L’androne del palazzo è vuoto: finalmente sono in un luogo silenzioso, ne sentivo il bisogno. Raggiungo in fretta l’ascensore per sfuggire alle parole che mi inseguono da stamattina: Ho saputo, Mi dispiace, Se ti serve qualcosa. Così, all’infinito. Chissà cosa accadrebbe se dicessi a uno di questi apparenti samaritani Sì, mi serve qualcosa. Immagino il panico sul loro volto, l’ansia di sapere a cosa hanno vincolato la loro rispettabilità. È per questo che non lo faccio. Io il panico degli altri non lo voglio vedere. Sono ok, Grazie, Non mi serve niente.

In realtà c’è una cosa di cui avrei bisogno proprio ora: che l’ascensore arrivasse veloce al piano terra. Ma è di quelli vecchi, costruiti insieme al condominio. Le scale gli girano intorno ed è prigioniero dentro una fitta rete metallica che dalla base del palazzo arriva fino alla cima, come una colonna vertebrale.

Adesso, questo strano amico meccanico che vince la gravità al posto mio, scende con una calma che mi sembra quasi avere una certa grazia. Quando alla fine mi raggiunge, apro le due piccole porte in legno e lui mi accoglie scricchiolando con rumori esatti, che conosco a memoria. Per un attimo non riesco a premere il pulsante: mi sembra di non arrivarci, proprio come se avessi ancora cinque anni. È solo un attimo, adesso sono un adulto. Il bottoncino col tre è all’altezza del mio stomaco. Lo schiaccio e finalmente sto tornando a casa.

Come quando rientravo da scuola con in testa la verifica di matematica e il profumo del pranzo si infilava nel mio naso appena arrivato sul pianerottolo. L’ascensore mi riporta al piano dove potevo riconoscere i suoni del televisore mentre frugavo nello zaino in cerca delle chiavi. Il rumore metallico che l’ascensore emette quando passa tra il secondo e il terzo piano mi fa pensare a mio padre che torna dall’ufficio e come prima cosa vuole vedere se ho fatto i compiti. Mi torna l’ansia, ma non ho compiti da fare per oggi.

Giro la chiave nella serratura. Anche questo è un rumore esatto, antico. La porta si richiude alle mie spalle con un suono che riconoscerei mischiato a decine di altre porte che si chiudono all’unisono. Poi, però, sento qualcosa di diverso. Anzi, c’è qualcosa che non sento: la casa è immersa in un silenzio che non ha nulla in comune con quello accogliente dell’androne. L’aria sembra vuota, irrespirabile. Il tavolo nel salone è immobile, il lampadario è spento. In strada passa una macchina e la luce dei fari attraversa il soffitto della stanza da un lato all’altro. Poi sparisce e tutto torna buio, fermo. D’altronde cosa dovrebbe fare un tavolo? Danzare? Supero la cucina priva di odori e arrivo davanti alle camere. Mi accorgo che sto aspettando una voce. Sei in ritardo, ti sei ricordato il giornale per papà? oppure Stai attento che è bagnato per terra. Ma non sento nulla. Attraverso il corridoio di corsa e mi chiudo in camera. Qui è tutto come l’ho lasciato io. Tutto ancora come prima.

Un racconto di Stefano Besi

Illustrazione di 2-Rxst

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