Non sapevo morire

Il treno era pieno di lavoratori e studenti. Doveva essere mattina ma non ne ero certo, non guardavo mai l’ora. Li osservavo: stanchi, palpebre gonfie, scheletri esausti. Molti sfogliavano quotidiani free press pubblicati in decine di lingue in milioni di copie per miliardi di cervelli da ammaestrare e ammansire. Altri leggevano libri di autori di successo – che però erano lo stesso scrittore, un cyborg ermafrodito sviluppato in un centro di ricerca tecnologica nel cuore non meglio definito dell’Europa. Nessuno lo sapeva. Anzi, i fan di alcuni autori tendevano a disprezzare quelli di altri, e il sentimento era reciproco, perché il cyborg applicava le regole sintattiche e le cifre stilistiche modellate dai Maestri di Neurolinguistica, atte a suscitare il disprezzo vicendevole fra i fruitori di prodotti editoriali affinché pensassero di essere liberi nella scelta.

Io osservavo la gente e poi guardavo il mio riflesso nel finestrino. La mia faccia si scioglieva, scivolava goccia a goccia. La carne diventava un mulinello di colori pastosi, litri e litri di colore morbido e caldo che colava come miele. Della struttura facciale mi rimanevano il teschio, misto a brandelli di tessuto e nervi, e gli occhi, perché sennò non avrei potuto vedere tutto quello scempio. Restava anche il moncherino dell’osso nasale da cui zampillava anice con il vago retrogusto di zenzero fucsia. Dalle orecchie traboccavano filamenti giallo limone e verde bottiglia, con riflessi azzurri.

Il treno della metropolitana viaggiava veloce mentre tutto il mio corpo colava verso il basso e verso destra e si attaccava al pavimento come mozzarella fusa. Era sempre così: ogni volta che associavo il Martur alle benzodiazepine e al vino rosso, il mio corpo si scioglieva e colava verso il basso e verso destra.

Di benzodiazepine ne avevo perché Tarso, il mio amore, le aveva ricevute, poco prima di morire, dal Servizio Sanitario – ignoravo la ragione, però adesso erano mie. Erano la mia eredità. Il vino ero riuscito a comprarlo con la moneta che avevo ricavato girando i distributori automatici durante la notte.

Non compravo cibo perché Tarso aveva ancora delle scatole di legumi e della salsa di pomodoro e un po’ di sottaceti e del pane duro che mettevo nel latte a lunga conservazione. Con quella scorta, mangiando una volta al giorno, potevo andare avanti un paio di mesi. Non sapevo cosa sarebbe successo dopo. In fondo, non me ne importava granché. Io avevo il Martur e mi bastava. Me lo dava un amico, Alex. Lui aveva un debole per la sodomia, nel senso che gli piaceva prenderlo. Questa sua passione costituiva la mia unica possibilità di ottenere il Martur gratis.

Se non lo avessi avuto, sarei morto. Ne derivava che Alex mi salvava la vita. Lui lo sapeva e io ero fottuto. Ero terrorizzato dall’idea che trovasse qualcuno con cui rimpiazzarmi, per questo andavo da lui anche quando il Martur lo avevo già e avrei volentieri fatto a meno d’incontrarlo. Non mi piaceva. Non venivo mai. Lui diceva che lo facevo impazzire. Urlava. A volte rimediavo anche qualche banconota, oltre alla solita dose di Martur.

Me ne tornavo a casa guardando quella capsula zeppa di gel blu elettrico, acceso, fosforescente, con sette universi dentro e milioni di pianeti e stelle e quarantamila Atlantide sommerse e quarantamila in emersione, e il fantasma di Tarso mi fissava mentre sfregavo la spugna sui miei organi genitali per levare Alex, per mandarlo via, in attesa di quando mi avrebbe telefonato di nuovo. L’indomani. Allora mi veniva voglia di affogarmi nella vasca. Mi mettevo a faccia in giù e restavo in apnea e sentivo i rumori degli altri appartamenti che si propagavano lungo le tubature dell’acqua e arrivavano fino a me che volevo morire.

Il Martur luccicava sul lavandino di fronte. Io ero sciolto in una pozza calda di colore e i pendolari mi calpestavano e la voce registrata ripeteva i nomi delle fermate, prima in italiano, poi in inglese e infine nella lingua degli angeli. Ero sciolto e rimanevo incollato alle scarpe dei viaggiatori, incastrato nella gomma delle suole, e loro scendevano ciascuno a una fermata diversa e mi portavano in giro per tutta la città, chi in un ufficio, chi in un cantiere, chi su un altro treno, chi in un liceo, e io dormivo nella vasca da bagno mentre la mia carne colorata e sciolta si faceva trasportare sotto i tacchi di tutti e i testicoli di Alex producevano sperma alla velocità della luce e il Martur mi guardava dal lavandino su cui era appoggiato e la gente si spostava sottoterra per raggiungere il posto di lavoro dove guadagnava i soldi per il mutuo e l’automobile e lo stendibiancheria  e i romanzi del cyborg.

Io nella vasca che non sapevo morire e Tarso che marciva in una bara.

Un racconto di Giovanni Schiavone

Illustrazione di Chiara Troisi

Lascia un commento