Nessuno vince

Pelle e ossa, non sei mai tornato a casa. Nella stessa casa dove oggi non posso tornare neppure io.

Davanti agli occhi ho le immagini dei tanti viaggi fatti insieme, come un giorno senza fine, noi tre e la macchina di turno, senza una meta prefissata; migliaia di chilometri e ritorno, lieve c’era la strada. Ricorderò. Ricorderò ogni giorno e ogni momento, quel senso di sicurezza, la musica, i discorsi che facevamo, il vento dell’autunno che si è portato tutto via.

Ci sono idee, raccontavi a noi ragazzi, che si concepiscono solo a tarda notte, con la follia romantica e inconsapevole dei vent’anni. Come sciropparsi centottanta chilometri di curve solo per vedere il sole sorgere dal mare, sull’altro versante. O tentare di rubare il bassett hound di Rex Harrison, lasciando aperto il bagagliaio della 128 nella speranza irragionevole che volesse saltarci dentro.

Ricordo l’erba alta agitarsi, vite passate, vecchie poesie e nuovi fantasmi. A volte mi sembra di aver vissuto una vita intera senza di te.

Ricordo che amavi la radio, che era sempre accesa, in macchina. Glenn Miller, Pavarotti, Springsteen e gli Spandau Ballet. Come se non ci fosse un’idea, dietro. Però l’unica volta che Jimi ha suonato in Italia tu c’eri, e non ne abbiamo mai parlato. Conservo ancora le vecchie cassette, smagnetizzate. Senza uno strumento per suonarle. Vecchie pietre.

Guardo il mare e aspetto nuove onde per vecchie pietre.

Il mare a cui quella notte eravate scesi in marcia indietro. Per sfida, per incosciente irruenza. Oggi, che lì non posso tornare, spesso di notte, a occhi chiusi, ripercorro quel tragitto nella mia testa. La prima curva, ripida, a uncino, per lasciare la piazza e accarezzare le colonne che la sorreggono. Un primo rettilineo lambito dai vicoli, con i gradini che odorano di pomodori marci e storie in ogni angolo. Vittorio il barbiere, Rino il traditore, le figlie du’Pim. Ognuno di loro sembra affacciarsi da quelle salite. Sembra attendere il tuo ritorno.

La curva a destra, a gomito, una cicatrice incisa nel cemento. La scuola a destra, i campetti sotto, la strada, i marciapiedi, tutti gli spazi sottostanti la tua casa, che nostri non sono più. Espropriati dallo Stato. E poi giù fino al negozio di mobili che porta – se per sfortuna o per parentela non l’ho mai saputo – il nome di un giustizialista in divisa che tredici anni fa ha ucciso un ragazzo innocente in un modo tanto assurdo quanto insensato. O forse era solo un povero disgraziato che aveva commesso una grossa cazzata, molto più grande di lui. Anche questo non lo sapremo mai, né tu né io.

Sull’altro lato della strada ammonisce “Procedere con prudenza, i bambini giocano”. Quando a cinque anni rubasti per la prima volta il camion, ti andasti a schiantare più o meno da queste parti. Era finito in folle, ci tenevi a precisare. E anche la mia memoria sembra schiantarsi, finire in folle. Perdersi fra le curve strette, strettissime, con il muretto basso a valle e il bastione che regge le ultime case del centro storico svettante a monte.

Ho perso la strada – e la maggior parte di me stesso – per piacere a tutti, ho dovuto imparare a ricominciare. Va bene lo stesso, vai avanti, vorrei sentirti dire.

Da te ho preso l’abitudine di chiudermi in silenzio. E in questo silenzio cercare parole, frasi da dire, scartarle una a una, pensare che questa non è divertente, questa è imbarazzante, questa è fuori luogo, questa potrebbe creare brutte associazioni mentali, ecco, questa potrebbe andare bene, e poi ripensarci. Silenzio.

Quella notte vorrei ricordarla buia e silenziosa. E invece sento solo le urla di mia madre. L’ambulanza che non arriva. Il mio viso schiacciato contro il vetro della finestra del bagno, per mantenere una presa sulla realtà.

E ricordo il mattino dopo.

Avrei voluto sedermi accanto a te sulla spiaggia tagliata da un vento freddo, avrei voluto dirti che ero felice, e che quello che era venuto dopo era come doveva essere, denso e concreto, poetico e disperato, malinconico ma scanzonato. Avrei voluto dirti che i tasselli del mosaico erano andati tutti al loro posto, e che eri stato tu, con i tuoi discorsi, con le tue critiche e con le tue proposte a spazzare via molti dei pezzi di troppo.

Oggi, probabilmente, felice lo sono.

Immagino che non finiremo mai tra i fortunati, e che non ci rivedremo.

Nessuno vince, e se non ti vedrò mai più puoi sempre dare la colpa al vento.

Un racconto di Jacopo Viganò

Illustrazione di Marco Pellino

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