Costa Cider

«Senti, non ti arrabbiare», disse Thomas Stoltz Harvey al cervello che viaggiava accanto a lui nella scatola del sidro Costa Cider. «Sei tu ad aver donato il corpo alla scienza».

Non proprio nella scatola del sidro, ma in un barattolo pieno di formaldeide al suo interno, perché si conservasse al meglio.

Prese a picchiettare con i pollici sul volante. La strada per la Pennsylvania era monotona e sembrava interminabile, andava avanti sempre diritta tra case, campi coltivati, campi abbandonati, alberi alberi alberi e distese. Si trattava di guidare solo per 45 miglia, ma gli pareva di dover arrivare nel Midwest. Comunque, non aveva scelta: non avrebbe più potuto lavorare all’ospedale di Princeton, e a casa non poteva tornare. Doveva andare.

Continuò a spostare lo sguardo dal percorso alla scatola. C’era un laboratorio di test biologici, a Philadelphia, all’Università della Pennsylvania. Forse lì l’avrebbero assunto come supervisore, il direttore lo conosceva, e nel tempo libero avrebbe potuto dedicarsi a studiare quel cervello che se ne stava muto sul sedile del passeggero, con la cintura di sicurezza allacciata.

«Non potevo proprio lasciarti lì». Ricordava ancora con precisione il momento dell’asportazione: aveva inciso la testa da orecchio a orecchio, correndo con il bisturi lungo il cranio, tagliato cute e sottocute, esposto e scalfito l’osso, estratto l’organo con cura. Non era certo la prima volta che eseguiva un’autopsia, ma stavolta l’attenzione era stata maniacale e necessaria. Alla fine del turno l’aveva infilato nel barattolo, trasportato fino in macchina, nascosto in quella scatola del sidro Costa Cider rimasta sul sedile. 18 aprile 1955, una data che sarebbe finita su tutti i giornali: senza il suo nome tra le righe, sperava il Dr. Harvey.

Quando era tornato a casa, Joanne gli aveva sorriso sulla porta, poi gli era andata incontro intravedendo la scatola attraverso il parabrezza.

«Thomas, hai portato da bere?»

Lui aveva annuito poco convinto.

Avevano cenato; poi Joanne all’improvviso si era messa di nuovo a ridere con quelle labbra sottili e rosse. Erano andati in camera da letto e lei aveva preso a sbottonargli la camicia, gli occhi fermi e decisi.

«Ti voglio», gli aveva sussurrato piano, con la voce di quando era vero. A Thomas sembrò di poterla già toccare, di volerla già toccare, avvolta come era in quel vestito leggero, di voler affondare le dita in quei capelli lunghi e chiari. Le prese il volto tra le mani.

«Magari», disse lei, inciampando tra le loro labbra unite, «prima, potremmo bere un po’ di quel sidro che -»

«No!» l’urlo quasi strozzato di Thomas interruppe la frase di sua moglie, come uno sparo. Joanne adesso era seduta, lo guardava in silenzio.

«Io… non mi va, Joanne, sono stanco». Le sue dita tremavano leggermente.

«Sei stanco, Thom? Come mai? È successo qualcosa a lavoro?»

E poi, «Lo sai che puoi dirmi tutto.»

Gli occhi di lei, sempre così grandi e fissi – occhi da tarsio -, continuavano a indagare i suoi gesti, a cercare la verità nei suoi più impercettibili movimenti.

«Se tu non vuoi bere, fa lo stesso», concluse Joanne, «io ho voglia». Andò verso la porta di casa, accelerò il passo, abbassò la maniglia, uscì, si avvicinò alla macchina. Thomas le si parò davanti, correndo, la porta dell’auto dietro di loro.

«Thom, te lo chiedo di nuovo. È successo qualcosa a lavoro?» disse Joanne, stavolta con un tono totalmente diverso.

«Joanne, ti prego…»

«Thomas Stoltz Harvey, tu adesso mi dici cosa c’è lì dentro!» gridò allora lei, afferrando con rabbia la scatola del sidro Costa Cider dal sedile e trascinandola in casa. La piazzò sul tavolo, davanti a Thomas.

«Dimmi che cosa c’è». Mentre i secondi passavano, lo sguardo di sua moglie da determinato si fece incerto, poi timoroso, infine impaurito.

«D’accordo», disse allora lui «Diamine, te lo faccio vedere, ma non devi dirlo a nessuno».

Aprì il coperchio di cartone, piano. A quella vista, la pelle del viso di Joanne si fece pallida, la bocca rimase leggermente aperta. 1230 grammi -, lobo, corteccia, cervelletto e tutto il resto.

«Io… l’ho preso stamattina, per fare degli studi. È solo lavoro, voglio studiarlo meglio».

«…»

«Certo gli altri, all’ospedale, non lo sanno… ma non è illegale, credo, Joanne, io sono uno scienziato, lo sai, sono il Dr. Harvey e questo è un cervello, con questo posso fare delle scoperte importanti, Joanne, magari con questo posso cambiare il mondo, possiamo andare via da qui, cambiare casa, posso fare altri soldi, questo qui non era mica un cadavere qualsiasi, Joanne, tu lo sai chi è morto stamattina, amore, no?, stamattina al Princeton Hospital, lo avranno già detto anche alla radio, sono sicuro, e allora lo sai già che non era mica un morto qualunque, Joanne, e sai anche che ero di turno io, che ho fatto io l’autopsia, sai che dovevo farlo, che è ovvio che io l’abbia fatto, che io -»

L’ultimo ricordo che Thomas aveva di sua moglie era il proprio volto riflesso nelle iridi liquide di lei, la propria espressione mentre lei gli diceva: «Tu sei pazzo, Thomas». Poi aveva preso la scatola, messo in moto la Ford, ed era partito.

Come avrebbe potuto, adesso, concentrarsi sulla strada o sul sole che sorgeva, mentre nella sua testa i pezzetti della giornata si confondevano e contorcevano, duecentoquaranta pezzetti, come quelli che sarebbero rimasti del cervello che avrebbe potuto finalmente sezionare una volta arrivato a Philadelphia. Si sarebbe risolto tutto. Doveva solo andare.

Joanne aveva ragione, doveva essere pazzo. Era pazzo, per questo doveva comprendere quel cervello in cui c’era la risposta a tutto; il cervello più incredibile del mondo, il cervello dello scienziato ebreo tedesco svizzero statunitense, dello scienziato premio Nobel per la fisica Albert Einstein.

Un racconto di Valeria Lattanzio

Illustrazione di Giulia Canetto

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