River fool

Mi ero svegliato di colpo, il cuore pesante nel petto.

Doveva essere ancora notte fonda, nella camera filtrava solo una luce pallida dalla finestra in cucina che dava sulla strada e davanti alla quale stava mia madre, completamente nuda, lo sguardo fisso oltre le imposte chiuse. Sembrava che qualcuno l’avesse piazzata lì come un vecchio vaso da fiori che nessuno avrebbe mai più riempito.

Scesi dal letto e corsi da lei, la testa ancora troppo gonfia di sonno, in bocca il sapore amarognolo di quell’ultimo brandy che mi ero scolato, purtroppo da solo.

“Mamma”, chiamai sulla soglia della cucina. Lei non mi sentì, o meglio non mi capì, come le succedeva ormai da qualche anno.

“È Carnevale”, disse con una vocina, mentre le posavo sulle spalle la coperta sgualcita del divano. Sul viso dei bagliori intermittenti la facevano sembrare un’antica dea metropolitana.

La strinsi a me e le diedi un bacio sulla guancia gelata, lei sorrise, chiuse gli occhi e fu allora che vidi: fuori, in strada, un fiume compatto di persone si stava muovendo come un solo individuo

Famiglie con bambini, anziani in carrozzina, e poi giovani coppie, adulti con cani che trascinavano valigie gonfie, spalla a spalla come banchi di sardine si muovevano a piccoli passi verso una mèta sconosciuta. Davanti casa nostra era parcheggiata una camionetta dei militari, il lampeggiante acceso sbatteva a ripetizione sul finestrone.

Il suono del campanello mi fece sobbalzare, sgonfiando la testa del poco sonno che rimaneva.

“Sarà papà che è venuto a prenderci”, sorrise mia madre senza distogliere lo sguardo dalla strada.

Ciabattai verso l’ingresso. Mio padre ci aveva abbandonati quando avevo due anni, quindi comunque non l’avrei saputo riconoscere.

Non era mio padre, ma un giovane militare con dei buffi occhiali dalla montatura rettangolare.

“Salve”, disse soltanto.

Io restai in silenzio.

Lui perse un po’ di sorriso ma ritrovò il piglio:

“Sono qui per farla evacuare”.

A quell’ultima parola il corpo mi suggerì che avrei fatto meglio a pisciare prima di aprire, poi al piano di sopra una porta si chiuse e mi riportò alla realtà. Scendevano le scale del condominio i coniugi Mariani, una valigia per uno, seguiti da un altro militare armato. Lei aveva ancora i bigodini in testa, lui i capelli arruffati. Mi sorrisero gentili come sempre,  e reggendosi al corrimano continuarono a scendere. I due militari si scambiarono un rapido cenno d’intesa, poi quello di guardia ai Mariani seguitò anche lui la discesa.

“Io non mi muovo”, dissi al mio uomo,

“Abbiamo l’ordine di evacuare tutte le abitazioni”.

“Perché?”.

“È un’informazione riservata”.

Fanculo.

“Io non mi muovo”, ripetei, “mia madre è malata”.

“Posso mandarle un medico”.

E perché non un’ambulanza?, pensai d’istinto, ma poi dissi solo:

“È malata nel senso che è malata di testa”.

L’altro annuì e mosse le mani sul grosso mitragliatore nero.

“Aspetti un attimo”, dissi allora con evidente disappunto, e tornai dentro.

Intanto mia madre non si era mossa.

“Quest’anno i carri sono bellissimi”, commentò quando mi avvicinai, “avrei dovuto comprarti quel costume da arciere”.

Sbirciai fuori. Il fiume umano continuava la sua lenta discesa verso la piazza e io non avevo bisogno di voltarmi per continuare a sentire su di me lo sguardo pressante del militare sulla porta.

“Mamma, dobbiamo andare”.

Lei mi guardò senza stupirsi.

“Tocca a noi?”.

“Sì”.

“Allora sarà meglio muoversi”, e si diresse verso la sua camera da letto. La seguii, e vidi con sollievo che si era messa a preparare la borsa da viaggio. Provai ad avvicinarmi, si fece seria.

“Sono grande”, disse, “e sono già stata altre volte in campeggio”.

Poi fischiettò un motivo che sembrava la sigla di un vecchio programma di cucina.

Nel grande fiume umano nessuno sapeva.

Forse era scoppiata la guerra, qualcuno diceva che era colpa degli islamici o di quella grossa nave arrivata due giorni prima al porto. C’erano stati già dei morti? I telefoni avevano smesso di funzionare subito, come le radio e le tv. Le automobili immobili in strada, i militari che ripetevano sempre le stesse informazioni, cioè nessuna.

Eravamo in marcia da un quarto d’ora quando mia madre mi tirò per la giacchetta, indicando il punto in cui la strada si apriva nella grande piazza. Si era vestita con un tailleur celeste e un cappello con una grande piuma d’oca che non ero riuscito a farle lasciare a casa. Teneva stretta a sé la sua borsa di cuoio, mentre io trascinavo una valigia dove avevo buttato il necessario per sopravvivere almeno tre giorni in un clima mite.

“Oscar è morto”, sussurrò, “è finito laggiù ed è morto”.

Oscar era il nostro bastardino, che era morto investito durante una vacanza estiva almeno cinque anni prima.

“Quindi?”.

Adesso eravamo fermi e le persone ci sciamavano intorno, come le onde dell’oceano intorno a uno scoglio.

Mia madre mi accarezzò e sorrise.

“Il Carnevale può essere terribile, se non sai cosa metterti”.

Poi accadde tutto in un attimo.

Una signora che spingeva un carrello della spesa pieno di stoviglie mi franò addosso
Persi l’equilibrio e mi aggrappai a qualcuno per restare in piedi. La marea umana avesse improvvisamente preso velocità, selvaggia.

Mi guardai intorno e non vidi più mia madre. Cercai di risalire la corrente, ma più ci provavo e più venivo respinto verso la piazza, quasi sollevato da terra, la valigia ormai chissà dove.

Poi la vidi a pochi metri da me, all’imboccatura di una stradina vicino al ristorante giapponese del quartiere. Guardava la folla isterica come se si fosse trattato dei pesci di un acquario, pacifica, i nostri bagagli poggiati ai suoi piedi. I nostri sguardi si incrociarono, o almeno così credetti. Mi fece un cenno col cappello, sorrise e poi sparì veloce nella stradina.

Dalla piazza si sentì un boato, seguito da un violento spostamento d’aria che per un secondo frenò la marea. Riuscii a raggiungere il ristorante e a buttarmi nella stradina un attimo prima che la folla, brutale, cominciasse a divorare sé stessa.

Un racconto di Riccardo Bartoletti

Illustrazione di Incorrect

Lascia un commento