Soprattutto dopo pranzo

When the rain comes,
they run and hide their heads

(Lennon/McCartney)

Succedeva soprattutto dopo pranzo, quando la curva glicemica, dopo essere crollata sotto i colpi feroci dell’insulina, si impennava, e tutto il corpo scivolava nel dolce torpore degli zuccheri; era in quei momenti che il cellulare squillava, ogni giorno un numero diverso. Le prime volte rispondeva, e dall’altra parte c’erano indiani con la voce impostata, moldave querule, napoletani stanchi che gli chiedevano se aveva mai investito on line, se era interessato a cambiare operatore telefonico, se poteva leggere l’importo dell’ultima bolletta del gas, perché, ne erano sicuri, con la loro offerta avrebbe risparmiato almeno trenta euro al mese. Le prime volte li ascoltava, cercando, talvolta, di spiegare i motivi per i quali non era interessato; diceva che purtroppo non aveva tempo – sono al lavoro, diceva, anche se non sempre era vero – e si scusava; ma quelli non mollavano, e insistevano, proseguendo nella lettura di un copione sempre uguale. Lui ascoltava ancora un po’ e poi smetteva di parlare. Il napoletano, la moldava o l’indiano continuavano ancora per qualche secondo, per inerzia; poi il software che gestiva le chiamate, quell’algoritmo che aveva sempre un nuovo numero di telefono da chiamare, faceva partire un’altra telefonata, andando a violare la sonnolenza post-prandiale di qualche altro utente. A forza di rispondere a quelle chiamate, aveva capito che la strategia migliore era rispondere, appoggiare il telefono al tavolo e non dire niente: la voce lontana, un gracchiare di grilli, continuava uguale per una decina di secondi; quindi gridava pronto? pronto? e infine metteva giù.

Tutto questo accadeva tre volte alla settimana, durante i giorni lavorativi. Aveva ricevuto una chiamata anche un sabato, mentre accompagnava uno dei suoi figli a catechismo sotto un sole infernale – era giugno, e sembrava di essere all’equatore – ma non si era stupito più di tanto. Lasciò dunque squillare per un po’; quindi rispose ma senza dire nulla, e appoggiò il telefono sul sedile accanto al suo, mentre uno dei suoi figli, forse il più grande, ripassava una preghiera che gli era stato detto di imparare a memoria. Arrivarono davanti alla parrocchia. Il ragazzo scese. Lui salutò un papà che svolgeva la sua stessa attività di tassista di famiglia, fece manovra, e si avviò verso casa. Buttò un’occhiata al sedile: la telefonata era ancora in corso, ma dall’altra parte non arrivava nessuna voce.

La sera, mangiarono la pizza. Guardarono un film. Fecero la coda davanti al bagno per lavarsi i denti. Andarono a dormire. Nel sogno, rivide il numero del telefono che lo aveva chiamato quel pomeriggio. La parte centrale – cinque numeri dispari, palindromici, simili a una scala che saliva e poi scendeva – gli era in qualche modo famigliare. La mattina dopo, quando si svegliò da un sonno agitato, capì. Mandò un messaggio. Prima di pranzo, andò a prendere uno dei suoi figli che aveva bucato una gomma della bici e non riusciva a tornare a casa. Durante il tragitto di andata, telefonò a quel numero, e parlò per dieci minuti. Al ritorno, guardava la strada senza accorgersi del mondo.

Alla famiglia seduta attorno al tavolo raccontò che quel giorno aveva sentito un vecchio amico, un collega, in qualche modo: quando studiava all’Università, per poter avere un po’ di soldi in tasca, lavorava come cameriere in una pizzeria di periferia, ed era là che aveva conosciuto quel ragazzo che lo aveva chiamato al telefono: voleva organizzare una rimpatriata.

Raccontò che in quella pizzeria ci aveva lavorato una volta alla settimana, per quattro anni. All’inizio quel posto aveva l’aria di una trattoria, con le tovaglie rosa e bianche, le piastrelle geometriche; anche la divisa dei camerieri era un po’ retrò, con i pantaloni neri, la camicia bianca, il gilè nero con il dorso di raso. Venivano a mangiare per lo più famiglie, che spesso si portavano dietro nonni centenari e zie con le gambe grosse piene di vene varicose; ordinavano gnocchi ai formaggi, trippa, verdure lesse, il tiramisù alla fine…

Poi la gestione passò al figlio, un ragazzo sveglio e intraprendente che trasformò il locale in una specie di pub; nel giro di poco tempo si riempì di gente giovane, compagnie rumorose che fumavano per tutto il tempo. Si sentiva dalla parte sbagliata del tavolo – avrebbe voluto essere seduto con loro, e invece gli toccava tirare su le ordinazioni, portare le pizze, i panini, le piadine… I clienti non lo vedevano: era un cameriere e basta. Dopo un po’ si accorse che sua moglie si era alzata, come faceva ogni volta che finiva di mangiare, e se era andata in salotto a navigare su Facebook; i suoi figli, invece, guardavano storie su Instagram. Da quanto tempo stava parlando da solo?

Si trovarono il venerdì successivo, nella pizzeria dove avevano lavorato insieme. Non si vedevano da una ventina di anni, ma anche se il tempo li aveva cambiati, si riconobbero subito. Uno faceva il medico, un’altra era stata assunta in un negozio di vestiti; Elisabetta, che allora studiava giurisprudenza, lavorava in una municipalizzata. Ricordarono i rumeni che venivano a mangiare la sera, i tizi che passavano a rimorchiare, le mance che un signore sulla sessantina lasciava solo ai camerieri maschi; ricordarono un cliente abituale che era morto nell’esplosione di una fabbrica di fuochi d’artificio, e il funerale della figlia dei proprietari, che era uscita di strada mentre andava a prendere la piccola all’asilo, e la vecchia madre del titolare che, seduta in cucina con un vestito nero, spiluccava gli avanzi di cibo sui piatti che tornavano in cucina e intanto raccontava dei fidanzati che aveva avuto da ragazzina e che adesso andava a trovare in cimitero.

Parlarono delle loro vite. Massimiliano, un cameriere che studiava architettura, si era messo assieme a una cliente; si erano sposati ma non avevano avuto figli. Elena aveva continuato a lavorare in fabbrica e a girare per le discoteche; ora che aveva quasi cinquant’anni si sentiva un po’ ridicola ma, assicurò, rimorchiava più di prima. Ma che fine aveva fatto l’aiuto pizzaiolo? Come si chiamava? Faceva l’operaio, a quei tempi, e aveva bisogno di soldi per mantenere la famiglia.

Non smisero mai di parlare, di ridere, di raccontare altri aneddoti: il passato, ricostruito negli stessi spazi in cui era esistito molto tempo prima, possedeva una vividezza sorprendente, come quelle foto che si scattano d’estate e nelle quali ogni cosa brilla. Presero il dolce e l’amaro. Ordinarono altre birre, un secondo e un terzo giro. Erano praticamente sbronzi; a lui sembrava di avere ancora vent’anni. Quando si salutarono, Elisabetta chiese se poteva accompagnarla. «Come ai vecchi tempi» disse. Per un certo periodo lei aveva dovuto cedere la macchina al padre; e lui, allora, dopo il lavoro la portava a casa.

«Dove abiti?»

«Sono ancora con i miei. Li accudisco, sono vecchi. Te la ricordi ancora, la strada?»

Attraversarono la campagna scura. Le lucette delle case solitarie erano già spente. Qualche cane, sentendoli passare, si risvegliava dal suo sonno, usciva dalla cuccia e correva verso il cancello, abbaiando; rimaneva poi a seguirli con lo sguardo interdetto per qualche secondo, accertandosi che quella minaccia notturna fosse finita. Passarono accanto a un mulino vicino a un ponte, oltre un benzinaio. In giro non c’era nessuno.

Riconobbe il profilo della casa. Entrò con la macchina nel giardino di ghiaia. Nella penombra lunare, ogni cosa era rimasta uguale: il capanno degli attrezzi, le finestre in alluminio, le scale esterne che portavano al piano superiore, perfino un piccolo trattore parcheggiato ai margini della proprietà. Un gatto bianco e nero se ne stava acciambellato davanti alla porta.

«Sei ubriaco?»

«Sì, credo di sì. Non sono più abituato a bere così tanto.»

Lei gli si fece più vicina, gli appoggiò una mano sulla guancia e gli diede un bacio sulle labbra.

«Lo volevo fare da più di vent’anni. Ero innamorata di te, allora. Ma tu pareva che non ascoltassi, quando ti parlavo. Lo avevano capito tutti, che mi piacevi. Tutti tranne te.» Lei uscì dalla macchina e si avviò verso casa, ma prima di entrare si girò verso di lui e gli sorrise, e improvvisamente lui si ricordò che lo aveva fatto tutte le volte che l’aveva accompagnata, ogni settimana, per un anno intero: si fermava, si girava, gli sorrideva e poi entrava. Avrebbe dovuto capire, ma pensava ad altro; e poi se ne era dimenticato. Si era laureato, aveva trovato lavoro, aveva cambiato città, si era sposato, aveva avuto dei figli. Era invecchiato, immerso in una sonnolenza sempre più profonda, dove il suono delle cose era sempre più ovattato e le persone si confondevano tra di loro, come in quei sogni che non finivano mai. A casa, tutto era buio e informe. Sua moglie aveva smesso di ascoltarlo da un sacco di tempo, come lui faceva con i seccatori che cercavano di vendergli qualcosa al telefono. Ma anni prima aveva guardato Elisabetta attraverso un bicchiere pieno di birra ed era come se tra loro ci fosse stato del miele: lo ricordava bene, quel momento. Allungò la mano per toccarla, nell’abitacolo vuoto della macchina, mentre la città, sepolta nel silenzio, si avvicinava. Si diceva che certe canzoni, ascoltate al contrario, svelassero messaggi segreti; se avesse provato a riavvolgere la sua vita, avrebbe udito un fragoroso crescendo.

Un racconto di Paolo Zardi

Illustrazione di Angelo Policicchio

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